STO TRASLOCANDO
Carissimi,
ho ricevuto lo sfratto. Il primo avviso è della fine di luglio scorso (1998): una lastra al torace. La data esecutiva dello sfratto non è indicata da nessuna parte. Sembra sia difficile fissarla se non con molte approssimazioni. Anche perché c’è chi tenta di impugnare la sentenza: soprattutto i sindacati della vita (medici) che mettono in atto tutte le loro capacità di difesa ma è forte anche la protesta e la resistenza di tanti che hanno organizzato un fortissimo abbraccio protettivo. Ma so che non rimane che preparare il trasloco. In definitiva facile; il più facile dei traslochi: niente è trasportabile; tutto rimane dov’è o, comunque, su questa sponda. Semmai il problema è ridurre, alleggerire, eliminare, cassonettare, perché ciò che per te era (o sembrava) utile e anche importante non diventi ingombrante o problematico per gli altri.
È un aspetto che mi ha preoccupato molto. Eccessivamente: nessun brivido personale all’incenerimento del mio cadavere, invece disagi notevoli all’idea della rottamazione di cose (soprattutto carte e reperti vari) che riteneva qualcosa di te stesso non attaccabile da malattie e morte.
Tutto si risolverà come è giusto si risolva: il macero.
All’altra sponda è obbligatorio arrivare nudi. Nudi anche delle vecchie spoglie. Un’identità che non so ipotizzare (altra composizione fisico-spirituale?), capace di traghettare ciò che i tarli e la ruggine non distruggono e che i ladri non possono rubare.
Ciò che ho saputo essere o non essere? Ciò che chiamiamo, con la solita approssimazione, i "valori"? E quali?
Certamente anche i valori religiosi. Sebbene abbia difficoltà ad isolarli e privilegiarli come unici o particolarmente pertinenti per il mio altrove.
La convinzione è molto diffusa e radicata: il cielo e "religioso" e "sdogana" soltanto il "religioso". Proprio per la mia personalissima situazione è capitato anche a me di ridurre tutto ad un passaggio da chiesa a chiesa, da questa terrena, nella quale mi trovo in disagio proprio perché ritengo si ostini a non voler essere terrestre, cioè umana, cioè a misura della mia attuale condizione, a quella celeste che ipotizzo pienamente adeguata alla mia nuova dimensione.
Ma poi il termine chiesa (o religione) mi è apparso fuorviante. Non mi piacerebbe ritrovarmi, anche nell’altrove, nella "mia" chiesa, gruppo selezionato dei "miei" separato e distinto dai gruppi degli "altri"; non vorrei finire nel "mio" paradiso (si spera sempre nel meglio!), paradiso altro rispetto a quello buddista, musulmano, o delle mille parcelizzazioni di credenze e concezioni sull’aldilà. Sono stanco delle sottoclassificazioni. Almeno alle frontiere dell’altrove dovrebbe risultare normale e scontata la dichiarazione sorprendente di Einstein alla frontiera USA: "di che razza è lei?" "razza umana".
E mi sono accorto di essere, ancora una volta, in ritardo: non è paolina la convinzione che la fede e la speranza cesseranno e rimarrà solo la carità? Il cielo non è affatto "religioso". Il cielo pensiona le religioni: proprio tutto ciò che riteniamo indispensabile per relazionarci con il divino sarà scavalcato dal rapporto diretto con il divino (faccia a faccia…). Rimanendo tutti nella sola (!) carità cioè tutti armonizzati nel senza confini, divisioni, contrapposizioni. Finalmente umanità e niente altro. In questa prospettiva cade in cauta verifica l’ampio repertorio immaginifico e le non poche certezze che la "mia" religione mi ha fornito per il "dopo".
Saremo tutti sorpresi. Il Fantasioso ci stupirà. Polverizzando e anche contraddicendo tutte le ipotesi in circolazione da queste parti, dove non possiamo che riferirci a questa realtà e a questa esperienza. Andare nell’altrove è andarci inevitabilmente nudi di tutto ciò che offrono i nostri negozi (anche quelli teologici). Il nuovo corredo non appartiene alle nostre invenzioni e capacità. Sopravvive "solo" la carità. Senza etichette, nemmeno religiose, nemmeno "cristiane": vestire gli ignudi semplicemente perché è umanamente giusto che tutti abbiano protezione dal freddo e dal caldo; e sfamare e dissetare perché è umano, semplicemente umano , che nessuno soffra la fame e la sete…
Siamo umani e non angeli. Nessuno ci rimprovererà di non avere le ali. Saremo dei falliti se non siamo stati umani o siamo stati scarsi in umanità.
È in questa direzione che mi imbarazza mettermi a nudo. Tanto più che proprio in questa direzione – coltivarmi e coltivare umanità – ho ricevuto grandissime sollecitazioni: quella di Francesco d’Assisi che mi ha portato nei "suoi" conventi e poi nelle case precarie e nella fatica del lavoro dipendente del proletariato urbano (i "minores" dei suoi tempi?); quella di un’esperienza comunitaria (le CdB) che allena alla buona umanità del superamento di soggezioni ed oppressioni mentali, sociali, economiche, politiche.
Lo sfratto c’è.
Il trasloco avviene senza chiederti di svuotare, imballare, riempire, trasportare e poi sballare, ricollocare e sistemare. Richiede altre fatiche. Quella della malattia che, spesso, ti lavora senza nessuna delicatezza. Quella di pesare sugli altri ed è un peso pesante come nessun altro.
Mi rimane una resistente serenità di fondo: confermo che la fine si sposa sempre con il fine (ricordate quanto vi scrivevo, e in tempi non sospetti – febbraio 1998? – in Mai dire fine?). E non escludo serenità anche in chi la fine l’affronta senza abbellimenti, come normale conclusione di qualcosa che è stata vita e vivere è grandioso e gaudioso anche se è vivere a termine.
La malattia ammala anche i pensieri ed è possibile che vi abbia comunicato pensieri ammalati. Sono quelli a mia portata in questo momento.
Credo possiate sopportarli. In fondo si tratta della mia lettera ultima. Se ce ne saranno altre (utinam!) saranno – nonostante la cronologia – ovviamente lettere penultime.
Vostro per sempre
Martino Morganti
Livorno, 3 gennaio 1999.