HO RITEGNO A NOMINARE DIO. SONO ATEO?
Carissimi, si ritiene che i nonni (e più le nonne) amino raccontare novelle. Quelle che iniziano con un "c'era una volta" e concludono con un "vissero felici e contenti". Io sono un nonno senza novelle. E senza simpatie per quel "felici e contenti" legato e relegato al "c'era una volta": preferisco la felicità e la contentezza ora e qui anche se ora e qui abitano in complicazioni che il ricordo rimuove ed annulla.
Però adotto il "c'era una volta". Variando il finale in "e tutto era semplice e scontato". Il "c'era una volta" rimanda all'indietro di alcuni decenni. Il "tutto semplice e scontato" vorrebbe sintetizzare una situazione generalizzata di convinzioni consolidate e di comportamenti collaudati. Un "c'era una volta" a cui qualche nipote guarderà magari con rimpianto, ammaliato da tranquille certezze e chiare demarcazioni tra il nero e il bianco. Ma non dovrebbe mancare chi - il nonno è tra questi - di fronte alla noia e agli sbadigli del ripetitivo, del ri-dire, del ri-fare arriva a riabilitare perfino lo stress. Comunque, questa volta, la constatazione finale e complessiva è veramente murata dentro la sua cornice temporale: il "tutto semplice e scontato" è effettivamente chiuso nel "c'era una volta", nel tempo che non c'è più. Piaccia o non piaccia. Ormai la ricerca domina sul possesso di una solida eredità da conservare e trasmettere intatta e immutata. E a tutto campo. Senza concessioni di zone franche. L'ultimo numero 1994 di Concilium - e intende non inaugurare ma soltanto accogliere processi di accelerato avanzamento - problematizza la stessa teologia: "Perché la teologia?". E non scherza: "può ancora, per principio, la teologia cristiana far valere la pretesa di verità e, se sì, quale?"; "la teologia si trova in processo di apprendimento"; "anziché costringere ad accettare in tutti gli angoli della terra una teologia unitaria, c'è oggi una crescente propensione al confronto teologico con i singoli luoghi della teologia".
L'interrogativo raggiunge il cielo. Anche Dio è invitato a lasciare "la sua terra" (definizioni ontologiche: chi è) e ad emigrare verso l'ignoto (la sua incontrollabile e sorprendente presenza nel divenire umano). Il D'io (il significativo giochetto linguistico credo sia della Bartolomei) ammette la propria distanza dal Dio-Dio. O, se si vuole, si riconosce che il Dio-Dio tra noi non può circolare se non nelle vesti, appunto, di D'io, cioè a misura del nostro essere nel variabile del tempo e dello spazio. Ed approdo dove avrei voluto soffermarmi: il mio rapporto con Dio ora che non sono più nel "tutto semplice e scontato" e anche Lui, Dio, è costretto a passare attraverso le mie complicazioni.
Ho sperimentato due atteggiamenti. Diversi. Forse non separati.
Il primo: tacere di e su Dio. E' la posizione che mi calamita quasi senza volerlo. Dire Dio è inevitabilmente dire troppo rispetto alle nostre capacità di dire: "Dobbiamo imparare in qualche modo, nella presenza assente di Dio, a rimanere silenziosi, a riconoscere che Dio è Dio" (D. Tracy). E se dico Dio quale Dio penso e quale Dio viene recepito nel complicato passaggio dall'emittente al ricevente? Il "non nominare il nome del Signore invano" (Es 20, 7) si riaccende di vivissime motivazioni.
Ma tacere (o anche essere parsimoniosi ) su Dio non è senza inconvenienti. Il rischio più frequente: passare per atei. Lo sentenzia con facilità la folta schiera di chi si fida soltanto delle professioni esplicite e precise. E' credente chi dice Dio (si accettano i ... derivati: ovviamente il Cristo ma anche la Madonna, la Bibbia, la chiesa, il papa e pure certe associazioni, certi partiti...!). Chi tace nega.
Un rischio sopportabile. Mentre pesa, mette in serio disagio e provoca riflessione, la delusione di non pochi "poveri" che equivocano il tacere su Dio con la sottrazione alle loro attese del Dio - speranza - dignità - riscatto - giustizia... E inquietano anche le fortune di chi di Dio parla moltissimo e galvanizza e compatta (gruppi, comunità...) fervidi seguaci.
Il silenzio su Dio può cedere - è la seconda prospettiva - al parlar bene di e su Dio. Implica riportare in cantiere, oltre alla teologia, il linguaggio, verbale e non, della teologia. E' una sfida carica di fascino. Richiede supplementi di creatività, di fantasia. Per fortuna ci sono le donne. Le donne che non potranno negare che sono stati i maschi (alcuni maschi) a far uscire Dio dal "tutto semplice e scontato". Ma senza le donne sarebbe difficile approdare ad un "Dio leggero... del chiaroscuro dove non ci sono macigni di verità... Dio di chi usa ritornare all'essenza, a un se stesso ritrovato... che conduce ai mille volti dell'altro/a" (Carla Ermoli). E le donne ci sono, attivissime. Tanto per esemplificare: quelle delle CdB che si impegnano su "Noi donne e Dio" (Sasso Marconi, nov. '92); i gruppi di teologhe che lavorano su "Le donne dicono Dio" (Milano, nov '94). Nessuna presunzione di arrivare al definito e al definitivo. Ma tanta voglia di iniziare, o riprendere, lavori a lunga scadenza. Consapevoli che dire bene (o male) di Dio è far bene (o male) agli umani (ai viventi). Ne dipende la pace e ne dipendono le guerre. E tanto basta perché nessun nonno si ritenga pensionabile. E anche perché nessun nipote creda di poter fare da spettatore.
E' poco ma devo chiudere. Confermando l'ovvio: il Dio del "c'era una volta" era "semplice e scontato". Ma anche confermando che il nonno si ostina a ritenersi felice che quel Dio sia ormai confinato nel "c'era una volta".
Martino Morganti