MECCANISMI SACRIFICALI
Carissimi,
"Vittima" indica l’animale o l’umano ucciso per onorare e placare la divinità, Per estensione si attribuisce a chi resta ucciso o gravemente danneggiato da una disgrazia o incidente e, particolarmente, a chi è sopraffatto dalle violenze e dalla prepotenze altrui, a chi deve soggiacere a persecuzioni e sopercherie ingiuste.
Le due accezioni hanno percorsi separati ma anche, credo, incrociati.
Mi domando quanto l’accezione secolarizzata (quella estensiva) giovi a togliere all’accezione sacrale (quella originaria) alibi e coperture di legittimità e, addirittura, di utilità salvifica.
E mi chiedo, quasi rovesciando il problema, quanto la vittima sacra, l’archetipo sacrificale, riesca, anche oggi, a fare vittime umane di operazioni religiose e cioè sante e doverose.
Il primo risvolto ha il merito di ricondurre alla salute del buon senso l’atrocità dei miti distruttivi.
Ciò che risulta inequivocabilmente nefasto e ingiustificabile tra gli umani come può essere ritenuto buono e benedetto tra gli dei? Se ogni vittima chiama in causa un carnefice come affidarsi ad un dio che voglia vittime e cioè si metta nel numero dei carnefici?
La scienza ha tolto al tuono la voce di una minaccia divina La maggiore capacità di analizzare il gioco delle responsabilità depurandole dalle giustificazioni di un ordine sociale che accorda a qualcuno diritto di vita e di morte su altri, smonta il meccanismo sacrificale e lo rivela chiaramente improponibile in combutta con la divinità proprio perché chiaramente carico di atroce disumanità.
Conservo la lettera di un lettore fiorentino al quotidiano della sua città (La Nazione, 12 aprile 1997) e l’assumo a portavoce di questo rinsavimento religioso dovuto ad una crescita umana: "La Bibbia ci racconta di Abramo che, su sollecitazione di Dio, si apprestò a sacrificare a Lui la vita dell’innocente Isacco, suo figlio. Al contrario in epoca successiva è la Provvidenza stessa ad organizzare un sacrificio umano nella persona di Cristo, il giusto per eccellenza". Lo scrivente conclude: "I cattolici o concepiscono Dio come bontà assoluta o alla stregua di Moloch, il Dio feroce e sadico che godeva delle sofferenze altrui, per ammansire il quale i sacerdoti fenici dovevano offrirgli continuamente sacrifici umani".
Il rifiuto dell’idea sacrificale dalla terra sale fino al cielo.
Niente di strano che le religioni vengano "catechizzate" dall’umanità in positiva evoluzione di conoscenze e di avvertenze. Sarebbero strane le religioni che, pur avendo assunto elementi storico-culturali negativi dell’umanità, fossero invece restie a recepire i segnali positivi che la stessa umanità offre.
In ogni caso credo valida la posizione di chi ritiene che le religioni vanno valutate in termini di "funzionalità", in base alla loro positiva o negativa influenza nel mondo, a quanto sanno offrire in riferimento ai valori o disvalori universali che poi fanno il bene o il male dell’umanità. E una religione che coltivi meccanismi sacrificali e, quindi, di morte non è certamente accreditata a guidare un’umanità che voglia programmarsi in nome del rispetto e all’incremento della vita. A ben pensarci la vittima ha nelle religioni la sua collocazione più innaturale, perché le religioni dovrebbero offrire una zona franca da perversioni, una patria del bene.
L’altra faccia del problema: è proprio vero che la società secolarizzata è del tutto vaccinata nei confronti dei meccanismi sacrificali di stampo o di derivazione, esplicita o implicita, religiosa? È proprio vero che oggi l’idea sacra di sacrificio sia completamente superata?
L’impressione è che, in molti casi, si siano secolarizzati obiettivi e motivazioni ma rimangano intatti i meccanismi sacri: abbondano anche oggi gli immolati per la causa, per la "salvezza", per la "ragion di stato" nelle sue mille varianti: le ragioni della cultura, della civiltà, della razza, dell’economia, della politica, dell’identità nazionale o etnica…
E la cronaca offre con impressionante ripetitività resoconti di vittime immolatesi (kamikaze o altro) o immolate esplicitamente in nome di un qualche dio. Dimostrando, al prezzo di tragedie all’ingrosso, che la testa di uomini e donne è ancora infestata dalla convinzione che un qualche dio voglia sacrifici umani.
Le religioni prendono spesso le distanze da queste aberrazioni. Ma le religioni quasi mai staccano dai loro archetipi e quello sacrificale sembra essere un loro caposaldo irrinunciabile. U. Galimberti sembra incoraggiare questa conservazione vittimale pena l’appiattimento della fede in semplice etica: "Possiamo senz’altro dire che una religione dove i padri sono disposti a sacrificare i loro figli per volere di Dio è decisamente più forte di una religione che insegna ai padri di provvedere ai loro figli. Nella festa del sacrificio di Abramo i musulmani segnalano questa loro disponibilità e con essa la forza della loro fede che noi cristiani, per effetto delle eccessive mediazioni simboliche, abbiamo reso ‘e-sangue’ e raccolta, senza più lo spettacolo della carne e del sangue, in quella recitazione rituale che per tre volte nel ‘sacrificio della messa’ si limita a ripetere ‘Agnello di Dio che togli i peccati dal mondo liberaci dal male’" (la Repubblica, 20 aprile 1997).
Forse sacrificare e provvedere indicano percorsi nobili. Mi viene di associare il sacrificare i figli al sacrificarsi come padri, al de-possessarsi del figlio perché il figlio sia se stesso. Si colloca in questa linea Marie Balmary proprio rileggendo il non sacrificio di lsacco: "Abramo ha donato suo figlio. Ma il divino non lo prende. Non lo fa suo; Isacco non è più posseduto" (Il sacrificio interdetto, Ed Queriniana, Brescia 1991, pp. 206-226).
Sacrificio, quindi, che non toglie ma dà vita. Sacrificio che, quindi, occorre prendere in accezione diversa e opposta a quella indicata dall’arcaico codice vittimale.
Dovremmo tenerlo molto presente anche e soprattutto in rapporto al "sacrificio della messa" nel quale è insidioso continuare a nutrirsi di "ostia", cioè di "vittima", cioè del Figlio ucciso per volontà del Padre, cioè continuando a far fare brutta figura al Padre voglioso di sangue e brutta figura anche al Figlio trascinato dal suo tragico destino; cioè esponendoci a perseguire imitazioni dannose ai singoli e alla collettività. Lo stesso J. Ratzinger - ma trenta anni fa (Concilium, 1967, 4, pp. 83-96) - faceva sua la convinzione di J. Bietz che il sacrificio di Gesù "non deve essere interpretato primariamente dal punto di vista della tecnica sacrificale ma come martirio a partire dalla donazione totale della persona".
"Non voglio sacrifici".
Lo gridavano i profeti ( Os 6, 6; Am 5, 22ss ; Is 1,10-16; Sal 40, 7-9; 50, 8-15). Forse i profeti di allora si sarebbero accontentati di sacrifici sinceri e di sacrifici di animali ( il WWF non era ancora sceso in campo!) invece che di umani: il capretto al posto di Isacco. Già molto rispetto ai loro contesti storico-culturali.
Oggi occorrono profeti che gridino la fine di qualsiasi vittima, di qualsiasi idea sacrificale. Senza porre riserve, senza concedere niente alla morte (e anche alla mortificazione!) anche di uno solo per il bene e la salvezza anche di molti.
Martino Morganti