IL MAL DI DIO
Carissimi,
Il mal di Dio ha colpito ancora.
So che le date vi arriveranno invecchiate ma so anche che non sempre la cronaca muore al tramonto. Il 27 marzo scorso (1997) 39 adepti di una strana congrega sono stati trovati morti nella californiana San Diego. Era già successo e nessuno può garantire che sia successo per l’ultima volta. Dal 1978 i suicidi di questo tipo sono circa 1300 e meriterebbe analizzare la loro collocazione geografica: primato delle Americhe; segnalazioni dall’Asia e, poche, dall’Europa; assente l’Africa. Comunque suicidi collettivi. "Un modo ideale per liberarci di pazzi" ha commentato Ted Turner in riferimento a quello di San Diego. Turner, per chi non lo sapesse, è il "padre" della CNN. È, almeno nel caso, anche il "padre", o il portavoce, di chi risolve tutto prendendo le distanze da tutto, tirandosi fuori da ogni possibile responsabilità o corresponsabilità diretta o indiretta?
La morte è inevitabilmente vista da viventi. Cioè da osservatori esterni che debbono avere coscienza del grande limite del non sperimentato.
Visto dal di fuori il suicidio è più brutto della morte. Perché la morte consente ai viventi di scaricare la rabbia oltre le possibilità umane: la malattia, l’età, la disgrazia, la malvagità, … il fato! Invece il suicidio mette nell’imbarazzo di rovesciare la vittima in carnefice: perché l’ha fatto? Cosa c’è nella sua vita che motiva la scelta della morte? Per parenti ed amici, spesso, è difficile evitare almeno un pizzico di vergogna: tra l’altro la chiesa ha ritirato troppo recentemente l’esclusione del suicida dal funerale religioso (una specie di sbrigativa condanna eterna!) perché l’opinione e la convinzione comune si sia già aggiornata al rispetto di scelte insondabili.
Il suicidio è bruttissimo Il suicidio collettivo aggiunge un’abbondante porzione di sconcerto. Non soltanto perché moltiplica il brutto del suicidio individuale (vale nel caso di suicidio multiplo, quello che vincola nella morte persone legate in vita: una coppia contrastata; una famiglia disperata. ) ma perché riesce a far sintonizzare sul1’ora del voler morire gente di diversa vita e di diverse collocazioni sociali, economiche e, spesso, anche geografiche. Dai resoconti sul fattaccio di San Diego: "Man mano che la polizia rivela i nomi dei 39 suicidi si scopre un gruppo variegato. Gente qualsiasi, senza esperienze precedenti in comune". E per il rogo di 48 persone a Cheiry e a Granges (Svizzera) nel 1994: "Erano convenuti da mezzo mondo. Fra di loro non si conoscevano, avevano un solo indirizzo. Avevano prenotato aerei e auto per arrostire a quel modo".
Chi o cosa convoca alla morte ? Chi o cosa calamita al morire vincendo l’attrazione alla vita?
Sembra accertato che tutti questi suicidi collettivi abbiano qualcosa (o molto) a che fare con la religiosità anche se con religiosità tutt’altro che omogenee e definite. Insomma tutti affetti, appunto, dal mal di Dio (scriverei volentieri minuscolo -dio-; debbo scrivere Dio perché queste aberrazioni sono possibili soltanto se sostenute da grandezze, da certezze, dal tutto - Dio specialmente! - al maiuscolo).
Dal suicidio di San Diego U. Galimberti (La Repubblica, 28 marzo 1997) ha tratto una considerazione senza sconti: "Come sempre accade intorno a ogni Dio" ci sono "stati dei sacrificati". E, riferendosi a quello di Waco in Texas del 1993, C. Coccioli (La Nazione, 4 maggio 1993) andava sul pesante: " Tutto per religione è possibile; quando c’è Dio di mezzo, ogni stravaganza è ammessa". Religioni, e Dio stesso, suggeritori, istigatori di morte?
Un brutto affare. Molti, anche tra amici che hanno attraversato e, in qualche modo, vivono ancora esperienze "religiose", non ne possono più: aboliamo le religioni per difendere l’umanità; come difenderle se sono costantemente coinvolte in uccidersi e puntualmente compromesse - nonostante si proclamino tutte predicatrici di pace - in moltissime guerre e in molti altri fattacci di morte e di sangue?
Già: perché non abolire le religioni?
Perché, anche volendolo, non ci si fa: ci hanno provato in tantissimi e in tutti i modi ma le religioni rimangono, indistruttibili. Perché sarebbe smentire molti pezzi pregiatissimi di umanità - uomini e donne - che hanno esplicitamente collegato il loro essere costruttori di pace all’ispirazione religiosa, ciascuno alla propria quasi attingendo ad un fondo buono e benefico comune a tutte le religioni. Ma il problema rimane: l’umanità ha già troppi guai per conto proprio per sopportare questo supplemento di disastri attribuibile - a torto o a ragione - alle religioni! Non c’è uscita tra l’alternativa o rischiare di essere correi di violenze religiose o dimettersi dalle religioni? La strada diretta dello svelenamento delle religioni è praticamente fallimentare. Lo mettono le stesse religioni che, spesso, riconoscono la propria impotenza nei confronti di " adepti" incontenibili ed incontrollabili. Più affidabile, anche se di lungo e paziente percorso, la strada indiretta che arriva alla bonifica delle religioni recuperando un’antropologia senza illusorie amplificazioni e senza ingiuste mutilazioni. Uomini e donne - punto primo - che si accettano entro le proprie misure, che riconoscono e si attivano nei loro "confini" naturali, smettendo di frequentare i mercati dell’impossibile tutti aperti in nome dell’occulto, della magia, del virtuale, del religioso. Soffriamo di secolari ritardi rispetto alla cultura del "limite" e siamo gravemente intossicati da spinte verso miracoli e prodigi che creano dipendenze da tutti i santuari (anche quelli non religiosi sanno molto di religioso!) che offrono a gettone salvezze terrene (anche l’immortalità oltre l’eterna giovinezza) ed ultraterrene.
Uomini e donne - punto secondo - che riassumono in proprio tutte le loro potenzialità senza crederle proprietà di altri o di altro e, quindi, da mendicare da altri o da altro. Siamo culturalmente male abituati ad attribuirci la gestione ordinaria della nostra vita ( lavorare, mangiare, sistemarci, calcolare, sperimentare lo sperimentabile) ma non il nostro straordinario (speranze, sogni, certezze solide, valori, emozioni) che in noi è quasi in trasferta e che deve riagganciarsi alla sua vera zona di appartenenza: religioni e assimilati. Atrofizzando la parte più ricca di noi e cedendola ad affidamenti a vuoto e, quindi, esposti a pericoli per noi e per gli altri.
Per i cristiani la cosa dovrebbe aver trovato millenari addestramenti: Dio che si fa uomo è Dio stesso che si colloca interamente entro i nostri due metri, accettandone il limite e riconoscendoli contenitore di ogni nostra possibile crescita senza che niente debba essere cercato o trasferito sopra di essi, sopra la nostra unica statura.
Martino Morganti