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PARLA SOLO SE SEI INTERROGATO

Carissimi,

non ricordo dove e come è riapparsa: "parla soltanto se sei interrogato". Una norma predicata e praticata.

Chi di voi non l’avesse mai subita si consideri salvato da un universo familiare, educativo, scolastico, sociale e religioso compatto nel distinguere e dividere chi ha il diritto di parlare e chi ha il dovere di tacere. Tutto con il sigillo del Galateo di Della Casa; tutto coronato dalle buone maniere.

In me, questa norma, ha richiamato vecchi ricordi di tranquilla adesione ma ha anche rinforzato più recenti insofferenze e ribellioni che continuo a coltivare senza ritegni. In tutte le direzioni ed ambiti. Particolarmente là dove se si tace gridano le pietre (Lc 19, 39); dove è obbligatorio, per tutti, predicare - usare la parola - anche dai tetti (Mt 10, 27).

Non mi piace la chiesa che toglie la parola, detta o scritta, a personaggi noti e famosi e, meno ancora mi piace la chiesa che non concede la parola a milioni di uomini e di donne senza i quali non sarebbe chiesa.

Non mi piace la chiesa che si chiude, stronca esperienze - voce dei fatti - accampando ortodossia per squalificare ortoprassi o, per andare nel più semplice, invocando principi per bocciare storia o storie.

Non mi piace la chiesa che separa i docenti dai discenti e viceversa dispensando i maestri dall’esser discepoli e negando ai discepoli possibilità di insegnamento.

Non mi piace la chiesa del monologo. Tra il monologo e il dialogo c’è la demarcazione tra mondi e culture diverse; tra chiesa diverse. Il monologo è comunicazione incompleta, strozzata. In definitiva: una pseudocomunicazione. Usa un solo canale, quello dell’emittente al ricevente. Manca il canale di ritorno, quello dal ricevente al mittente. È unidirezionale e blocca la circolarità della comunicazione.

È organica al rapporto superiori-sudditi teso all’assenso. È incompatibile con la tessitura di rapporti interpersonali che presuppongono intercambiabilità di ruoli tra emittenti e riceventi.

Abbastanza scoperto che il monologo è specchio fedele della chiesa (delle chiese) di tipo gerarchico-dicotomico (clero e laici). E che è funzionale al mantenimento dello status quo istituzionale e dottrinale. Si presume che sia anche di grande efficacia persuasiva: la propaganda non è forse unidirezionale? Ma questo non è affatto sicuro: è verosimile che chi fa perno sull’autorità abbia un uditorio "più o meno rassegnato e comunque poco disponibile all’ascolto" (G. Orlandoni). Certamente il monologo avvicina la comunicazione e la cultura della chiesa alla comunicazione e alla cultura di massa, assumendone i caratteri persuasivi ed ideologici; accentrando l’emittenza in un gruppo ristretto ed omogeneo e allargando a "massa" i riceventi.

Il monologo fa male, è nocivo.

Nuoce anche a chi lo pratica. L’emittente che non riceve, che rimane chiusa in se stessa, è destinata ad inaridirsi come un pozzo senza sorgente: il termine tecnico della "retroazione" e feedback cioè letteralmente "alimentazione di ritorno". Mancando ogni forma di reazione o riscontro (consenso, rifiuto, indifferenza), il messaggio è privato di possibilità di modifiche, chiarimenti, arricchimenti, e viaggia fasciato di presunzioni. Nuoce a chi lo subisce. Un semiologo (S. Diaz) assicura produzione di analfabetismo totale: chi conosce una lingua soltanto per ascoltare ma non per parlare "non sa quella lingua". Probabilissimo almeno l’analfabetismo religioso perché solo ascoltare è mutuare e non costruire, è subire e non scegliere. È rimanere in stato permanente di subordinazione culturale che si traduce facilmente nel fedele che è tale soltanto perché anagraficamente cristiano e fisicamente presente nella ecclesia.

Non posso non pensare all’omelia domenicale.

È il monologo dei monologhi: il monologo che convoglia tutti i monologhi ecclesiastici e li porta in diretto e puntuale rapporto con la gente. L’omelia è la chiesa monologizzante che, nel concreto e vivo del qui ed ora, si radica e di dirama monologizzante. È il monologo a portata di tutti e, quindi, il monologo che tutti posson assecondare ma anche interrompere o, almeno, mettere in difficoltà.

L’omelia che, stranezza delle parole, significa "conversazione": Lc 24,14, ad esempio, usa homileo per indicare il colloquio dei due discepoli con lo sconosciuto viandante sulla strada di Emmaus.

I dizionari moderni si adeguano alla realtà: "predica del vescovo" da aggiornare con "predica del clero"; "predicozzo" da riabilitare mettendo in conto anche "buone prediche"; "monologo" e, qui, non rimane che confermare.

Infatti l’omelia rimane monologo. In tutte le chiese. Anche in quelle, come quelle protestanti, che dovrebbero escluderlo in base ai loro presupposti ecclesiologistici. Probabilmente si sono ritenute appagate trasferendo il monologo dai chierici ai laici. Che non è trasferimento da poco. Spezza un monopolio secolare: si ritiene che il responsabile decisivo nel dare la parola soltanto ai chierici sia papa Leone Magno: "all’infuori del sacerdote, nessuno, sia egli monaco o laico, abbia l’ardire di predicare, qualunque titolo di scienza possa egli vantare" (Epistola 210, 6). Allarga da una categoria, ed un’esperienza, a più ampi contesti di vita e di sensibilità.

Insomma: comprensibile che la categoria - i laici - istituzionalmente esclusa dalla parola, chieda il diritto alla parola. Lo hanno e - qualche volta e a certe condizioni - anche ottenuto, ad esempio i valdesi durante il Lateranense III e gli umiliati e i francescani con Innocenzo III.

Ma il monologo laicale se rispetto a quello clericale può giovarsi di più ampie e concrete prospettive, rimane monologo. Resta, e mantiene la chiesa, in una comunicazione e, quindi, in una comunione ammalata.

Soltanto l’omelia che torna ad essere ciò che significa - conversazione - potrebbe entrare in fase di guarigione, avviare la guarigione della chiesa. L’omelia-conversazione non è l’adozione di una nuova forma o modalità di annuncio evangelico ma è decidersi, finalmente, di essere evangelici.

Archiviamo il "parla soltanto se sei interrogato". In casa, nella società, nella scuola, nelle buone maniere.

Anche nella chiesa. Ho vissute "messe die fanciulli" nelle quali bambini alti quanto "un soldo di cacio" ("formaggio" per i non toscani!) affrontavano il microfono con incantevole disinvoltura. E sognavo: questi bambini non li fermerà nessuno; con loro, tanto per concretizzare, le assemblee nella mia fabbrica non saranno più esibizione di qualche imbonitore davanti a tanti paralizzati dall’imbarazzo di parlare in pubblico. Sognavo l’avvento di demolitori del monologo coltivati nella chiesa costretta a farsi chiesa dialogante.

Continuo a sognare. Nonostante tutto. Nonostante che i risvegli insistano a scoraggiare il sogno.

Martino Morganti


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