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La madre di tutte le menzogne



Data: 19 Aprile 2021
Autore: a cura della redazione



Era la notte tra il 16 e il 17 gennaio
1991, precisamente alle 2:38, quando
un pilota militare americano, dal
suo cacciabombardiere, schiacciò il
primo pulsante per sganciare una
serie di bombe che ruppe il silenzio dell’inverno.
Era l’operazione chiamata “Desert
Storm” che passerà alla storia come la “Prima
Guerra del Golfo”. Si sganciavano micidiali
bombe sull’Iraq perché Saddam Hussein non
aveva risposto all’ultimatum delle Nazioni
Unite: secondo l’ONU e gli Stati Uniti, presieduti
all’epoca da George W. Bush, oltre a
ritirare le proprie truppe dal Kuwait, avrebbe
dovuto rinunciare alle armi di distruzione di
massa, mai trovate.

Sono passati ormai 30 anni da quei 40 giorni
di bombardamento continuo sulla popolazione
irachena. A noi, che stavamo comodi sul
divano di casa a guardare la tv, quei micidiali
ordigni apparivano come delle linee tracciate
su schermi verdi, come se fosse un videogioco.
Fu il primo conflitto trasmesso in diretta
televisiva. Vennero invece sganciate ben
90.000 tonnellate di bombe, comprese quelle
a grappolo e i proiettili perforanti con l’uranio
impoverito, e i missili “da crociera”. Fu la volta
anche delle bombe “intelligenti”. La prima intelligenza
fu rappresentata dalle PGM (Precision
Guided Munition), vale a dire i proiettili
guidati, la cui probabilità di fare centro alla
massima gittata contro un bersaglio (carro,
nave, ponte, aereo) è superiore al 50 %, quando
non vi sia opposizione, cioè non ci sia una
contraerea. E le vittime stimate furono circa
duecentomila: moltissimi furono i civili, le
donne, i bambini e le bambine. Quella guerra,
possiamo tranquillamente dire ora, fu la madre
di tutte le guerre, e nulla fu più come prima.
Purtroppo questo triste anniversario ci obbliga
a fare memoria anche del nostro tradimento
nei confronti dell’art. 11 della Costituzione
italiana: “L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli
e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali…”. Evidentemente le infedeltà
possono stare ad ogni angolo del concreto
agire delle nostre istituzioni repubblicane,
così come di qualsiasi cittadino e cittadina
del nostro bel paese. Ma era quello il tempo
(agosto 1991) del Nuovo Ordine Mondiale
degli USA di Bush e del nuovo Modello di
Difesa varato dall’Italia che indicava, sempre
nel 1991, nella “tutela degli interessi nazionali
ovunque sia necessario”, la missione delle
forze armate.

Nel tentativo estremo di scongiurare che
la parola fosse data alle armi, papa Giovanni
Paolo II intervenne in più occasioni. Il 12 gennaio
1991, nel discorso tenuto ai rappresentanti
del corpo diplomatico accreditati presso
la Santa Sede, nel sostenere che una guerra nel
Golfo avrebbe rappresentato una tragica avventura,
affermò senza mezzi termini che «i
veri amici della pace sanno che l’ora è più
che mai quella del dialogo, del negoziato, della
preminenza della legge internazionale. Sì, la
pace è ancora possibile; la guerra sarebbe il
declino dell’umanità intera»1.

Il 15 gennaio rivolse due distinti e accorati
appelli ai due capi di Stato. Evidenziando come
nessun problema internazionale potesse essere
risolto col ricorso alle armi e nella ferma
convinzione che «la guerra, oltre a causare
molte vittime, crea situazioni di grave ingiustizia
che, a loro volta, costituiscono una forte
tentazione di ulteriore ricorso alla violenza», a Saddam
Hussein chiese di voler «prendere le decisioni più opportune
e compiere gesti coraggiosi che possano essere l’inizio
di un vero percorso di pace»2. A Bush fece rilevare
come fosse molto difficile che la guerra potesse portare
«un’adeguata soluzione ai problemi internazionali e che,
anche se una situazione ingiusta potesse essere momentaneamente
risolta, le conseguenze che con ogni probabilità
deriverebbero dalla guerra sarebbero devastanti e tragiche
». Lo invitò infine a non illudersi «che l’impiego delle
armi, e soprattutto degli armamenti altamente sofisticati
di oggi, non provochi, oltre alla sofferenza e alla distruzione,
nuove e forse peggiori ingiustizie». Gli chiese, infine
di «evitare decisioni che sarebbero irreversibili e porterebbero
sofferenze a migliaia di famiglie di suoi concittadini
e a tante popolazioni del Medio Oriente»3.

Quest’appello, a differenza di quello analogo formulato a
suo tempo da Giovanni XXIII in occasione della crisi di
Cuba, venne sottovalutato, fu considerato frutto di un semplicistico
confidare in istanze utopiche, restò con superficialità
inascoltato. Oggi, alla luce di un trentennio di esperienza
storica, possiamo verificarne la grande e realistica
lungimiranza profetica di parole dette in nome della pace.

Il periodo trascorso, se si esaminano gli eventi senza
precomprensioni, mostra con tutta evidenza come
quell’avventura bellica, anziché determinare, come
superficialmente propagandato dagli ambienti militari
occidentali, una rapida e quasi indolore soluzione di
problemi, possa essere considerata se non l’origine, di certo
un evento che ha contribuito profondamente a destabilizzare
ulteriormente l’area mediorientale, a favorire successivi
conflitti e a creare le condizioni per l’affermazione in Iraq
del califfato islamico.

Confermando le previsioni di Giovanni Paolo II, si sono
moltiplicati nuovi e feroci conflitti armati, contribuendo
ad avviare quella che poi papa Francesco ha definito “una
guerra mondiale a pezzi”. Non solo! La destabilizzazione
dell’area è anche all’origine di una delle correnti migratorie
di maggiori dimensioni, che proprio dalle terre di quella
che un tempo chiamavamo “la mezza luna fertile” vede
migliaia e migliaia di esseri umani fuggire dalla guerra,
dalla violenza, dalla miseria e dalla discriminazione.

Una corrente migratoria che ai confini dell’Europa,
anziché accoglienza, incontra il rifiuto anche violento
operato da parte dei “ricostruttori del muro di Berlino”,
giungendo a fenomeni di vero e proprio sequestro di
persone e di riedizione di campi di concentramento.

In questo quadro si inserisce il dibattito, aperto in questi
ultimi mesi nel nostro paese, dalla riproposizione di
un’iniziativa che punta a introdurre nella nostra legislazione
una normativa ispirata ai principi dello ius soli, per
prevedere modalità che consentano il conseguimento della
cittadinanza a persone nate in Italia da genitori immigrati.

La sola proposta del tema ha determinato un’immediata
alzata di scudi da parte degli ambienti della destra xenofoba
e razzista, che ha letto in essa un presunto attentato
all’identità nazionale e alle prospettive di sviluppo del
Paese. Sembra di essere - per certi versi - tornati all’epoca
della tarda antichità, quella dei regni romano-barbarici,
allorché ebbero a confrontarsi due visioni alternative del
diritto, quella della “territorialità”, propria del diritto
romano, e quella della “personalità”, che caratterizzava le
popolazioni germaniche. La storia allora mostrò che, alla
fine, a dispetto della superiorità militare germanica, il
principio della “territorialità del diritto” mostrò in tutta la
sua pienezza la propria superiorità.

Lo ius soli, se ben esaminato, appare piena espressione
di un principio di territorialità del diritto, che affonda le
proprie radici nell’antichità, sino al diritto romano classico.
Anzi desta meraviglia che un principio, di incontestabile
origine latina, sia fatto proprio dalla legislazione di molti
paesi e sia, invece, oggetto di contestazione proprio nel
paese diretto erede della cultura classica latina.
Contestazione fatta per giunta in nome di una presunta,
quanto infondata, difesa dell’identità nazionale.

Ma il riconoscimento della cittadinanza a chi è nato in
Italia, oltre che a fondarsi su centrali e alti elementi di
diritto, e nonché sia richiesto da elementari istanze di
accoglienza e di lotta all’ingiustizia, rappresenta anche
un’enorme opportunità indiscutibile di crescita economica
e culturale. Lo sforzo che sarà necessario compiere per
garantire nel Mediterraneo la libera e sicura circolazione
degli uomini e delle idee, per costruire percorsi scolastici
ed educativi capaci di mettere in comunicazione culture
diverse, per garantire a chiunque giunga sulle nostre coste
e dentro i nostri confini condizioni di vita degne di esseri
umani, richiede l’impegno a costruire un grande progetto
di accoglienza e di sviluppo, che avrà inevitabilmente
anche grandi ricadute sul piano della crescita economica
del paese. Chi giunge in Italia e vive accanto a noi, coltiva
i nostri campi, ci fa da badante, non è un nostro nemico e
può percorrere, assieme a noi, la stessa strada per rendere
il nostro paese un paese migliore.

Chi grida lo slogan insultante “prima gli italiani”, non
si rende conto di lavorare in realtà affinché gli italiani
arrivino ancora una volta ultimi. Le tentazioni autarchiche,
come ha abbondantemente dimostrato la storia, sono alla
fin fine autodistruttive.

1 - http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1991/january/documents/hf_jpii_
spe_19910112_corpo-diplomatico.html
2 - http://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/speeches/1991/january/documents/hf_jp-ii_spe_19910115_saddamhussein-
bush.html
3 - Ivi.