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La Chiesa rischia di diventare una subcultura - intervista a Mons. Albert Rouet



Data: 01 Maggio 2010
Autore: a cura della Redazione
Fonte: pubblicato su “Le Monde” del 3.4.2010



La chiesa cattolica è scossa da molti mesi per
la rivelazione di scandali di pedofilia in
parecchi paesi europei. Tutto questo l’ha
sorpresa?
Vorrei anzitutto precisare una cosa: perché ci
sia pedofilia sono necessarie due condizioni,
una profonda perversione e un potere. Questo
vuol dire che ogni sistema chiuso, idealizzato,
sacralizzato è un pericolo. Quando una
istituzione, compresa la Chiesa, si erge in
posizione di diritto privato, si ritiene in
posizione di forza, le derive finanziarie e
sessuali diventano possibili. È quanto rivela
l’attuale crisi e tutto questo ci obbliga a tornare
all’Evangelo; la debolezza del Cristo è
costitutiva del modo di essere Chiesa. In
Francia, la Chiesa non ha più questo tipo di
potere; questo spiega perché si sia di fronte a
devianze individuali, gravi e detestabili, ma
non si riscontra una sistematizzazione di
questi casi.
Queste rivelazioni sopraggiungono dopo
parecchie crisi, che hanno segnato il pontificato
di Benedetto XVI. Chi maltratta la
Chiesa?
Da qualche tempo, la Chiesa è flagellata da
tempeste, esterne ed interne. C’è un papa che è
più un teorico che uno storico. È rimasto il
professore che pensa che un problema, una
volta impostato bene, è per metà risolto. Ma
nella vita non succede così. Ci si imbatte nella
complessità, nella resistenza della realtà. Lo si
vede bene nelle nostre diocesi, si fa quello che
si può! La Chiesa fa fatica a situarsi nel mondo
tumultuoso nel quale si trova oggi. È il cuore
del problema.
Oltre a questo, due cose mi colpiscono nella
situazione attuale della Chiesa. Oggi, si
constata un certo gelo della parola. Oramai, il
minimo interrogativo sull’esegesi o sulla
morale viene giudicato blasfemo. Interrogarsi
non è più ritenuto una cosa ovvia, ed è un
peccato. Parallelamente regna nella Chiesa un
clima di sospetto malsano. L’istituzione si trova
ad affrontare un centralismo romano, che si
basa su di una rete di denunce. Certi gruppi
passano il loro tempo a denunciare le posizioni
di questo o quel vescovo, a fare dei dossier
contro qualcuno, a tenere delle informazioni
contro qualcun altro. E questi comportamenti
si sono intensificati con internet.
Inoltre, noto una evoluzione della Chiesa
parallela a quella della società. Questa vuole
più sicurezza, più leggi, quella più identità, più
decreti, più regolamenti. Ci si protegge, ci si
rinchiude, è proprio il segno di un mondo
chiuso, è catastrofico!
In generale, la Chiesa è uno specchio fedele
della società. Ma, oggi, nella Chiesa, le
pressioni identitarie sono particolarmente forti.
C’è tutta una corrente, che riflette poco, che ha
sposato un’identità rivendicativa. Dopo la
pubblicazione di alcune caricature sulla stampa
Arcivescovo di Poitiers, mons. Albert Rouet è una delle figure più libere dell’episcopato
francese. La sua opera, J’aimerais vous dire (Bayard, 2009), è un best-seller nella sua
categoria. Più di trentamila copie vendute e vincitore del premio 2010 dei lettori di La
Procure, questo libro-intervista getta uno sguardo molto critico sulla Chiesa cattolica. In
occasione della Pasqua, mons. Rouet offre le proprie riflessioni sull’attualità e la sua
diagnosi sulla Chiesa.
riguardanti la pedofilia nella Chiesa, ci sono
state delle reazioni degne degli integralisti
islamici sulle caricature di Maometto! A voler
apparire offensivi, ci si squalifica.
Il presidente della Conferenza episcopale
francese lo ha ripetuto a Lourdes il 26
marzo: la Chiesa francese è colpita dalla crisi
delle vocazioni, dalla difficoltà della trasmissione
della fede, dalla diluizione della
presenza cristiana nella società. Come vive
questa situazione?
Cerco di prendere atto che ci troviamo alla fine
di un’epoca. Si è passati da un cristianesimo di
abitudine, ad un cristianesimo di convinzione.
Il cristianesimo è perdurato grazie al fatto di
essersi riservato il monopolio della gestione del
sacro e delle celebrazioni. Di fronte alle nuove
religioni, alla secolarizzazione, le persone non
fanno più riferimento a questo sacro. Pur tuttavia,
possiamo dire che la farfalla è “più” o “meno”
della crisalide? È un’altra cosa. Allora, non
ragiono in termini di degenerazione o di
abbandono: stiamo mutando. Bisogna misurare
l’ampiezza di questa mutazione. Si prenda la mia
diocesi: settant'anni fa contava ottocento preti.
Oggi ne ha duecento, ma conta anche 45 diaconi
e 10mila persone impegnate nelle 320 comunità
locali che abbiamo creato quindici anni fa. È
meglio. Bisogna arrestare la pastorale della
SNCF (ndr.: ferrovie dello stato francesi).
Bisogna chiudere delle linee e aprirne delle altre.
Quando ci si adatta alle persone, al loro modo
di vivere, ai loro orari, la frequenza aumenta,
anche al catechismo! La Chiesa ha questa
capacità di adattamento.
In quale modo?
Non abbiamo più un personale per mantenere
una suddivisione di 36.000 parrocchie. O si
considera che si tratta di una miseria da cui
bisogna uscire ad ogni costo e allora si torna a
sacralizzare il prete; oppure si inventa qualcosa
d’altro. La povertà della Chiesa costituisce una
provocazione per aprire nuove porte. La Chiesa
deve appoggiarsi sul clero o sui battezzati? Per
mio conto, penso che occorra dare fiducia ai
laici e smetterla di funzionare sulla base di una
organizzazione medievale. È un cambiamento
fondamentale. È una sfida.
La sfida presuppone l’apertura del
ministero agli uomini sposati?
Sì e no! No, perché immaginate che domani io
possa ordinare dieci uomini sposati, ne
conosco, non è quello che manca. Ma non potrei
pagarli. Quindi dovrebbero svolgere un altro
lavoro e sarebbero disponibili solo nei fine
settimana per i sacramenti. Allora si tornerebbe
ad un’immagine cultuale del prete. Sarebbe una
falsa modernità.
Invece, se si cambia il modo di esercitare il
ministero, se la sua posizione nella comunità è
diversa, allora sì che si può immaginare
l’ordinazione di uomini sposati. Il prete non
deve più essere il capo della sua parrocchia;
deve sostenere i battezzati perché diventino
degli adulti nella fede, formarli, impedire loro
di ripiegarsi su se stessi.
Tocca a lui ricordare che si è cristiani per gli
altri, non per sé; allora presiederà l’Eucaristia
come un gesto di fraternità. Se i laici resteranno
dei minorenni, la Chiesa non sarà credibile.
Deve parlare da adulto ad adulto.
Lei ritiene che la parola della Chiesa non sia
più adatta al mondo. Perché?
Con la secolarizzazione, si sviluppa una “bolla
spirituale” nella quale le parole fluttuano; a
cominciare dalla parola “spirituale” che si può
riferire più o meno a qualsiasi merce. Quindi
è importante dare ai cristiani i mezzi per
identificare e per esprimere gli elementi della
loro fede. Non si tratta di ripetere una dottrina
ufficiale ma di permettere loro di esprimere
liberamente la propria adesione. È spesso il
nostro modo di parlare che non funziona.
Bisogna scendere dalla montagna, scendere in
pianura, umilmente. Per far questo occorre un
enorme lavoro di formazione. Perché la fede
era diventata un qualcosa di cui non si parlava
tra cristiani.
Qual è la sua maggiore preoccupazione per
la Chiesa?
Il pericolo è reale. La minaccia per la Chiesa
è di diventare una sottocultura. La mia
generazione teneva particolarmente all’inculturazione,
all’immersione nella società.
Oggi, il rischio è che i cristiani si rinchiudano
tra di loro, semplicemente perché hanno
l’impressione di essere di fronte a un mondo
di incomprensione. Ma non è accusando la
società di tutti i mali che si diventa luce per
l’umanità. Al contrario, occorre un’immensa
misericordia per questo mondo in cui milioni
di persone muoiono di fame. Tocca a noi
aprirci al mondo e tocca a noi renderci
amabili.