Redazionale del n° 1 (Gennaio 2006)
Quale sostenibilità?
Quale partecipazione democratica?
Sono questi gli interrogativi che si presentano a chiunque, superando gli orizzonti strettamente privati, si guardi intorno, veda i problemi sociali locali, nazionali ed internazionali e pensi alle possibili soluzioni ed al proprio ruolo all’interno di percorribili processi di trasformazione. Ammesso naturalmente che si scartino l’indifferenza, lo scoraggiamento, il rifiuto di leggere la realtà e di assumersi le proprie responsabilità ed il disprezzo qualunquistico verso la politica. La vita di ciascuno di noi ha vari aspetti connessi tra loro: psicologici, interpersonali, spirituali, ecc., ma qui vogliamo soffermarci sul nostro ruolo di cittadini/e e del nostro rapporto con la politica e l’economia. Partiamo da un recente fatto sconvolgente: in Cina un affluente dell’Amur, il fiume del Drago, viene inquinato da un’enorme quantità di benzene e dieci milioni di persone restano senza acqua potabile; le conseguenze continueranno a farsi sentire in aree vastissime, per molto tempo.
La crescita economica vertiginosa dell’economia cinese viene pagata a caro prezzo dalle persone e dall’ambiente, basti ricordare in proposito le nuvole di smog sulle città e le centinaia di morti nelle miniere! Di fronte a ciò alcuni pensano che sia il prezzo da pagare e che poi le cose “si aggiusteranno”, altri ritengono che la cosa più importante sia salvaguardare i nostri Paesi dalla concorrenza con qualche provvedimento protezionistico, altri ancora (pochi) suggeriscono di “globalizzare i diritti” ponendo in primo piano non la crescita, ma le persone, la salute e l’ambiente e aggiungono che una parte della concorrenza deriva dalla delocalizzazione delle industrie europee, giapponesi ed USA, che vanno in Cina per avere mano d’opera a basso costo e senza diritti sindacali e assenza o quasi di vincoli ambientali. Estendere i diritti e le tutele significherebbe allora salvaguardare anche i posti di lavoro nei nostri Paesi, ma allora si dovrebbero mettere in discussione alcuni “dogmi” relativi a liberalizzazione e competitività.
Da questo macro-esempio si può capire come, semplificando, si possa dire che sull’economia (e non solo!) ci sono sostanzialmente 4 posizioni base: una liberista pura, due liberiste moderate ed una che vorrebbe superare il liberismo in nome della sostenibilità ambientale ed umana. Appiattirle su due posizioni è una forzatura. Per capire ancora meglio, si può far riferimento alle ricette di Giavazzi apparse sul Corriere della Sera in novembre. Giavazzi, dopo aver valutato favorevolmente il fatto che la Banca Europea abbia alzato i tassi di interesse, afferma che per rendere più efficiente l’economia, occorre liberalizzare, privatizzare e licenziare di più, abolendo i “privilegi” (cioè anche e soprattutto i diritti e lo stato sociale). In Italia si dovrebbe cancellare il valore legale dei titoli di studio, privatizzare ENI, ENEL e acquedotto pugliese, rendere più flessibili i mercati e dare alle imprese piena libertà di licenziare togliendo ai tribunali la facoltà di impedire i licenziamenti ingiustificati. Per Giavazzi, Berlusconi ed il suo governo sarebbero stati frenati su questa via dal conflitto di interessi e dalle remore democristiane e populiste. Il fatto che abbia fatto le sue proposte ad entrambi gli schieramenti politici è abbastanza inquietante.
Il problema però non è solo italiano. Esaminiamo di contro alcune affermazioni di Giovenale relative al “ciclo corto” delle merci. Egli, partendo dal NO TAV in Val di Susa, si chiede “E se si cominciasse a prendere confidenza mentale con l’idea di ridurre l’andirivieni delle merci? Se si affermasse il controllo pubblico sui flussi economici per frenare relativamente export-import e per promuovere i cicli corti di produzione e consumo luogo per luogo, senza annullare ovviamente il commercio internazionale e il privilegiare concretamente il trasporto su rotaia e per via marittima?”. Aggiunge poi che orientando la ricerca al risanamento del territorio, all’agricoltura biologica e simili, non si avrebbe contrazione dell’economia, ma una fioritura di occasioni di lavoro e di reddito ripartito tra tutti i cittadini. Ciò non è facile né di immediata attuazione, tuttavia è una scelta non irrealistica.
Infine una domanda. Come conciliare le privatizzazioni con la naturale esigenza di considerare beni comuni l’acqua, l’energia, la cultura, la conoscenza e la biodiversità e di ritenere che anche il territorio e le abitazioni non possano essere considerati merci come le altre?
Per riassumere, ci sono contraddizioni serie e concrete tra un vero sviluppo sostenibile e la crescita continua del PIL, il pareggio dei bilanci statali entro parametri rigidamente stabiliti, la competitività perenne, sia pure sostenuta da ricerca ed innovazione (orientate come?) e la tutela degli abitanti del pianeta e delle limitate risorse ambientali. C’è chi ritiene che queste contraddizioni siano gestibili con scelte accorte, intelligenti ed oneste e chi pensa che ciò sia impossibile senza un profondo cambiamento.
DEMOCRAZIA E PACE
Anche rispetto ad altre tematiche si possono avere divergenze; per semplificare potremmo dire riguardo alla pace ed al modo di praticare la democrazia e la partecipazione. Riguardo alla pace, esse attengono alla lotta al terrorismo, al diritto internazionale, al ruolo dell’ONU, ai rapporti tra Stati alleati. Il discorso sarebbe molto complesso ma, non potendo svilupparlo in tutta la sua ampiezza, ci si potrebbe limitare alle possibili risposte ai seguenti interrogativi: Quale atteggiamento verso i patti internazionali, tipo la NATO? Rapporti davvero paritari o no? Alleanze intangibili o no? È possibile avere una politica estera autonoma, ad esempio per l’Europa rispetto agli USA? Per essere ancora più chiari: ritiro immediato dall’Iraq, come ha fatto la Spagna di Zapatero, o no? Rifiuto di partecipare a qualsiasi altro conflitto di questo tipo o no? A tutte queste domande le risposte possono essere di 3 o 4 tipi, non solo due.
Per quanto riguarda la democrazia, le problema-tiche sono tante: rapporto tra partiti e società civile e movimenti, questione morale, forme di partecipazione, garanzie e tutela dei diritti umani e del bilanciamento dei poteri contro possibili tentazioni di democrazia, se non autoritaria, addomesticata.
Nelle democrazie occidentali negli anni più recenti emerge soprattutto la dicotomia gover-nabilità/rappresentatività come ha messo spesso in evidenza in alcuni articoli Raniero La Valle (ma non solo lui) e qui si arriva all’interrogativo: è preferibile il sistema elettorale maggioritario o quello proporzionale, magari corretto da qualche non forte sbarramento? Alternanza “mite” o possibilità di vere alternative? Dato che le posizioni base sono almeno quattro, l’appiattimento su due coalizioni non sembra la risposta migliore: questo dramma è vissuto da tutte le socialdemocrazie. Si assiste ad altalene tra unità e divisioni, queste ultime però non nascono da capricci e/o perso-nalismi, ma dai fatti e dal diverso modo di valutarli. Lo si vede in Germania (La Fontaine, ecc.), nel Regno Unito (Respect, ecc.), tra i Democratici USA, in Israele (con la vittoria di Peretz su Peres: e non è un gioco di parole), in Italia (difficoltà di elaborare un programma nel Centro-sinistra, tentativi di dare un ruolo effettivo alle Primarie che talvolta fanno registrare la vittoria di candidati/e di base es. Rita Borsellino in Sicilia). Quando le decisioni degli eletti collidono con le esigenze delle popolazioni o con la volontà di pace e verità, chi è portatore di queste esigenze spesso si trova a scegliere tra le dimissioni o l’adattamento “opportunistico” e gli elettori si sentono traditi: per esempio, la parlamentare inglese che aveva denunciato l’uso delle armi al fosforo in Iraq. E si va avanti così, in questa altalena: uscire, dimettersi, formare nuovi partiti, cercare di far cambiare linea al proprio oppure entrare, unirsi e cercare “accordi divergenti”. Insomma, se esiste una “sinistra radicale” non è per dogmatismo o ideologismo, ma perché talvolta i problemi richiedono risposte radicali. Ricordiamo la bella frase: “Il vero realismo è l’utopia”?
LA LINEA DEL TEMPO
Queste cose a molti apparivano evidenti già una trentina d’anni fa quando si svilupparono via via i movimenti pacifisti e nonviolenti, ambientalisti e femministi e, come partiti, la nuova sinistra, i Verdi e la Rete (cosiddetta di Orlando), la cui radicalità era l’opposizione netta alle connivenze con la mafia. Non dimentichiamo inoltre lo spirito migliore del ‘68: immaginazione al potere, siamo ragionevoli, chiediamo l’impossibile (ciò che sembra tale), democrazia di base, autogestione; e poi lo spirito di Seattle e di Genova: “un mondo diverso è possibile”, è necessario, forse è in costruzione... l’altermondialismo dei social forum locali ed internazionali.
Ci furono e ci sono sbandamenti, limiti, stanchezze e contraddizioni, ma il filo che lega queste cose permane e potrebbe aiutarci a leggere la realtà odierna e a districarsi nel groviglio di avvenimenti, problemi e rischi che ci sta di fronte.
Purché si riconoscano le differenze per quello che sono: chiavi di lettura e proposte di soluzione con uguale dignità, da presentare con chiarezza e semplicità ai cittadini perché possano orientarsi e scegliere consapevolmente.
per la redazione
Minny Cavallone