Redazionale del n° 5 (Maggio 2003)
Mai più guerre!
Premessa
È relativamente più facile interpretare i fatti del passato che capire quelli attuali.
Man mano che si viene a sollevare qualche velo circa i veri motivi di ciò che cade sotto il nostro sguardo, si scoprono, come capita circa quest’ultima guerra contro l’Irak, disegni diabolici, intrighi, insidie e cose simili, mentre si moltiplicano martellanti luoghi comuni. Il mondo è complicato e, solo che fossimo meno superficiali, staremmo ben attenti prima di formulare un giudizio, anche se ci sembrasse scontato.
Certamente la parola che oggi più si ripete ovunque è PACE. Bandiere dai colori dell’arcobaleno sventolano da molti balconi, e sono il segnale di un appello mai così incalzante.
Come mai in tutto il mondo si scandisce unanime la stessa parola?
Questa giunge accorata e forte dalla pur flebile voce del Papa; si fa minacciosa protesta da parte di gente comune; riecheggia come grido esigente di riscossa anche tra folle di islamici; risuona appassionata e carica di speranza nelle piazze affollate di giovani e meno giovani; esplode ovunque e fa implorare preludere sognare una palingenesi improrogabile… Ci lascia attoniti di fronte ad un monito severo, più incisivo e più mirato di un’utopia, più esigente di un’ideologia, più pregnante di qualsiasi impulso esistenziale.
Davvero, in una rivista come la nostra che si definisce di fede, di ricerca e di attualità, non possiamo limitarci a ripetere "ciò che dicono tutti", ma abbiamo il dovere di dare spazio ad interrogativi di fondo. Il bisogno di pace è molto più che una bandiera, una pretesa, una volontà politica, una fede, una speranza: o meglio è tutte queste cose insieme.
La guerra e l’indispensabile consenso di tempi passati
Per una questione di metodo, affrontiamo il tema partendo un po’ da lontano. A che son servite finora tante guerre? E chi ha pagato per esse in termini di vita umana e di rovine?
Dobbiamo risalire alle cause per capire in che senso la pace oggi ci interpella, mentre ieri era un fatto abituale dei governi, sia che fossero patriarcali, sia che si ispirassero a criteri assolutisti.
Il consenso che essi ottenevano era, per dire così, scontato; facevano apparire utile la guerra per il mantenimento e il consolidamento del potere costituito, fonte di sicurezza. D’altra parte l’esercito destinato al combattimento era formato da persone che esercitavano il mestiere delle armi e il popolo era assuefatto ai disagi della guerra, tanto che vigeva il proverbio: il popolo non deve accorgersi che il re fa la guerra. Intanto le nuove generazioni si adeguavano ai modelli del passato per via del senso di appartenenza che veniva coltivato in loro.
Dal consenso lealista alla massa plasmata da pionieri del nuovo
Il fatto nuovo avviene attorno al ’600-’700, quando alcuni sovrani si aprono ad un riformismo illuminato, traendo stimolo dai suggerimenti degli intellettuali di cui si circondavano per essere avvertiti circa il nuovo clima che si stava per realizzare. Tramite loro si convincono che è meglio far calare le riforme dall’alto. Non è giunta ancora l’entrata delle masse nell’agone politico. Queste, nel vocabolario storico, non rappresentano un aggregato informe; sono piuttosto espressione della maturazione della consapevolezza politica, che si farà sempre più spazio tra i ceti disagiati, giorno dopo giorno, grazie ai metodi semplificati di propaganda usati dalla borghesia, desiderosa di non trovare intralci nel libero commercio che cominciava a circolare. Il contagio delle idee giunge così anche ai più poveri, che Marx definirà proletari (cioè possessori solo delle propria prole!).
Inizia la nuova era delle masse. Può sembrare strano parlare di masse per indicare la nuova coesione che acquistano gruppi sociali, quando diventano consapevoli di avere diritti da rivendicare. Ed è certo che l’antico consenso ottenuto dai sovrani era semplice parvenza di fronte a quello che ora si fa strada attraverso la zelante opera di uomini coraggiosi, sinceramente convinti di una loro missione storica.
La sostanza etica di due ideologie
Il grande travaglio di circa due secoli (‘700 e ‘800) segna lentamente l’avanzata dei non-aventi-diritti, e non mancano rivoluzioni e guerre civili, attraverso cui il potere, almeno dal punto di vista formale, viene capovolto in quasi tutto l’occidente e in parte dell’oriente.
A metà del secolo scorso, tra e dopo due guerre mondiali si affermano due Superpotenze, USA e URRS, sotto il cui ombrello trovano riparo e si rafforzano due diverse ideologie. Quella marxista, di sinistra, si fa forte della proposta di diffondere l’uguaglianza sociale in ogni aspetto della vita dei popoli, in modo da contrastare o contenere l’ingigantirsi del capitalismo occidentale. E questo sistema, di destra, si propone di tutelare gli interessi di chi chiede libertà economica e politica per fare la propria fortuna personale, nella lusinghevole prospettiva di generalizzare il progresso, e per giunta in maniera indefinita.
Non è difficile individuare i limiti dell’una e dell’altra ideologia. Quella di sinistra, pur tanto promettente per la difesa dell’uguaglianza e del diritto al lavoro, inceppa facilmente nella tentazione del potere: con la scusa di gestire politicamente la disuguaglianza delle ricchezze, può impedire il libero scambio, livellare stili di vita (omologati verso il basso), bloccare la creatività. L’ideologia liberale, mitizzando il progresso indefinito, destinato a dare benessere e felicità a tutti, è quasi naturalmente portato a restringere la sua ottica nella tutela dei diritti acquisiti (o da acquisire) grazie al nuovo dogma che la ricchezza dei pochi possa diventare, anche se parzialmente, vantaggiosa per i più.
Entrambe, elaborate e semplificate perché siano accessibili a tutti, sono cariche di valenza etica. Data l’assenza del collante religioso che prima andava a braccetto col potere, esse diventano delle vere e proprie religioni salvifiche, in difesa della dignità umana, il cui valore è assoluto in ciascuna persona. In questo proposito di palingenesi mondiale la convergenza delle due ideologie è piena, sia pure attraverso un’opposta metodologia.
L’antagonismo delle due ideologie
L’antagonismo delle due visioni era radicale. Il mondo "civilizzato" ha ruotato a lungo attorno ai due Paesi egemoni in uno stato di guerra fredda: come se bastasse a risolvere i problemi di fondo il contenimento dei due schieramenti, posti di qua o di là dal muro di Berlino.
A mantenere il difficile equilibrio tra i due è servito, ma ben poco, il ruolo della NATO (Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico), la quale, dopo la seconda guerra mondiale, aveva raggruppato attorno alle due potenze americane, USA e Canada, dieci nazioni europee, tra cui l’Italia, con l’intento di tutelarle da possibili aggressioni da parte dell’URSS. Per lo stesso ed opposto fine si è man mano svuotato di senso il PATTO DI VARSAVIA col quale l’Unione Sovietica si assicurava l’egemonia sulla parte orientale d’Europa (e non solo). La netta spartizione si accentuava, anziché produrre sistemi di scambi tra le potenze chiuse in atteggiamento difensivo l’una conto l’altra.
La pace armata evitava lo scontro diretto, che avrebbe portato danni estremi in maniera indiscriminata, ma non sanava la grande spaccatura, anzi inaspriva le posizioni e teneva in uno stato di all’erta che non giovava a nessuna delle due superpotenze. La sostanza etica, pur presente in entrambe le posizioni, era rigidamente estremizzata, sì da accecare e ad istigare all’odio vicendevole; e a poco a poco si appiattiva nei tatticismi improvvisati che prolungavano la malattia senza curarla.
Ma che cosa avveniva in Europa, e in particolare in Italia, centro del centro (europeo)?
Non viene elaborata una visione alternativa: cosa che sarebbe stata congeniale al suo essere culla della cultura umanistica (pur sopraffatta dall’invadenza tecnologica). Il trasferendo dell’opposizione ideologica all’interno degli stati (europei), avrebbe permesso il confronto, avviando una sana dialettica in seno ai singoli paesi. Invece avviene lo scontro, e a soffrirne erano i popoli che ne erano contagiati, impedendo la crescita democratica e perpetuando schieramenti a vantaggio dell’una o dell’altra potenza.
Il collasso ideologico
Quando nel 1989 crolla il muro di Berlino, un’epoca si chiude e se ne apre un’altra.
Si ha la sensazione che ormai possa risanarsi la spaccatura ideologica, tanto che da più parti si saluta l’evento con esultanza fino all’enfasi. Si preconizza esaurito il compito delle ideologie sia nel bene sia nel male.
Ma cosa mettere al loro posto? La messa a nudo della falsità sottesa all’utilizzazione che se ne è fatta rimane sconcertante. La delusione potrebbe sfociare in una pericolosa ricaduta indietro.
Purtroppo in via generale il collasso ideologico si traduce nel tentativo di cercare altre certezze, meno promettenti da un punto di vista terreno, più ancorate ad una fede, religiosa o laica, in grado di far riprendere il filo interrotto dalla storia dei popoli, dei gruppi sociali, delle fedi rassicuranti. Si vive l’epoca dei post. Mancano proposte nuove.
A dominare gli eventi pare concorra l’astuzia della storia (Hegel): non si può negare che una buona parte di quanto avviene è dovuto ai soggetti, ma c’è Qualcuno o qualcosa che trascende le singole volontà.
Dato che il mondo ha lacerazioni che nessuna ideologia è abilitata a sanare, è inutile aspettare un futuro promettente che provenga dalle nuove generazioni, su cui ricadono gli scompensi di un mondo che fa (almeno in parte) a meno di Dio. Essi non possono credere a regole dettate da un’etica, per l’assenza o per la debolezza di principi che siano evidenti per se stessi. Si fa tanto parlare di democrazia, ma nessuna tra quelle realizzate sfugge alle critiche più acerbe. Il cattivo esempio è pessimo maestro di verità: i giovani annaspano come possono…
La vera causa dello scombussolamento è da trovare in un’idea falsa di perfezione. Non è bastata la lezione del passato a rivelare il limite di ogni costruzione umana. Perché, invece, non riprendere come parametro dell’impegno l’utopia, che additi una meta la quale è, sì, irraggiungibile, ma permette di non stare fermi, ripiegati nel non-senso di tutte le cose?
L’utopia democratica e gli USA
Un tipo di democrazia incapace di autocorreggersi progressivamente non merita questo nome, soprattutto se dispiega una politica estera prevaricatrice. La democrazia, o si apre ad una collaborazione efficace, sempre più estesa agli altri paesi (e in tal caso è vera la frase che non ci può essere una guerra tra democrazie), oppure presume di dilatare il potere ovunque, con il pretesto di esportare la democrazia.
Bisogna tener conto della regola generale che nessuna forma di governo è perfetta, ma per la democrazia dovrebbe essere valida la possibilità di rendersi perfettibile. Il cammino storico, almeno, ci indica in essa un punto di arrivo: dipende da tutti noi migliorarla.
La democrazia è più un’utopia che una realtà. L’utopia può assolvere il compito di guida verso un tipo di società umana plurale e convergente verso lo stesso fine: rendere possibile ad ogni essere umano (ma anche ai non umani!) di essere rispettato nella sua dignità, nonché di realizzare assieme a tutti i suoi simili (e dissimili!) una vita meno insicura e meno travagliata, in vista di una crescita di carattere spirituale… Ferma tenendo la tesi che il potere è arbitrio se non nasce e non si sviluppa con il contributo di tutti.
Quale democrazia auspichiamo? In redazione, dietro le condizioni che abbiamo qui descritte, crediamo in una democrazia che sappia coniugare libertà ed uguaglianza all’interno di un singolo stato, che si faccia promotrice di valori etici, non più calati dall’alto, ma maturati nella coscienza morale dei singoli.
Non si tratta di un’opzione, ma di una necessità. La democrazia non può essere a servizio di un singolo gruppo umano. La sua vera essenza è nella capacità di guardare oltre ogni confine.
Ecco il perché il nostro no alla guerra vuole essere senza se e senza ma. Ogni contrasto che sfocia in una guerra è segno della chiusura che isola gli abitanti della terra, anziché renderli compartecipi dei beni che sono di tutti.
Utopia? Sì, somma utopia. Ma senza la quale è impossibile ogni vero progresso.
Gli Stati Uniti non meritano la medaglia che li mostri al resto del mondo come modello degno di pacifica espansione dei valori umani. Però è colpa nostra se ce ne lamentiamo e non mettiamo in atto alternative pronte (direi "immediate"), efficaci.
Il terrorismo e l’undici settembre 2001
Il terrorismo non è un fattore spuntato come un fungo nel terreno della storia. Ma mai come l’undici settembre dello scorso anno aveva presentato un volto così terrificante. Per giunta tale da preannunziare ulteriori sviluppi.
Noi occidentali abbiamo lasciato cadere colpevolmente nell’oblio la necessità di confrontarci con il resto del mondo. L’uovo del serpente che avrebbe reso evidenti e laceranti le crepe nascoste era in incubazione nello stesso Occidente. Non era residuato del passato, anzi prendeva forma, camuffato di normalità, nelle società del benessere. Né erano le masse dei diseredati a dargli i natali, ma altri soggetti storici, altri signori della guerra, dotati di massiccia ricchezza e di sofisticati strumenti da adoperare contro il "nemico"; e anche astuti nel servirsi dei diseredati per giustificare la volontà di strappare la POTENZA agli USA e ai paesi satelliti, e di occuparlo loro.
Un’ideologia anche questa, alla quale dà forma e forza il fanatismo religioso.
La maggior parte di coloro - tra i quali ci siamo anche noi - che non sono stati mai infatuati dello stile di vita che gli "americani" propongono esercitando la violenza invisibile della suggestione di un benessere sempre più raffinato, fanno del loro no alla guerra il no a questa violenza.
Ma come fare a fermare l’avanzata del mostro dalle sette teste?
L’America di Bush non ha avuto esitazioni di sorta.
Noi, però, che cosa abbiamo fatto per rispondere al progetto diabolico di cambiare il mondo con la violenza di Bin Laden, di Saddam, dei tanti usurpatori dei diritti dei deboli?
Non ci sentiremo bravi sol perché la pensiamo diversamente da coloro che vanno alla caccia del nuovo nemico camaleontico. Ma guai ad incoraggiare questo mostro anche solo indirettamente. Siamo a rischio di cadere nell’equivoco: essere presi per guerrafondai o per pigri difensori di una pace che è, anch’essa, oggi, pericolosa. Né possiamo ancora ritenere che per correggere le storture della realtà basti l’eroismo di alcuni…
Via la sacralità della guerra!
Tra la gente di ogni paese predomina una gran volontà di pace. E spesso - ahimé - per amore di quieto comodo allegro vivere.
Ci svegli dall’inerzia il motto Atterrisci e colpisci, che evoca la valenza del sacro, tipica di ogni guerra? Il tabù esorcizzato tramite la mediazione sacrale calamita la fantasia e le passioni più disparate.
Perfino il grande, nostro, Zanotelli pronuncia la frase che invita a considerare tabù la guerra. Ma è inefficace spostare il posto di un tabù e farlo occupare da un altro.
Intanto, se i fallimenti delle ideologie risucchiano le nostre speranze e utopie, c’è da trovare una via di uscita.
Già i suoi albori si intravedono. Non è mai avvenuto quello che capita oggi: il rifiuto (quasi) universale della guerra. Va diffondendosi un senso di fratellanza che rifiuta la complicità con i Prepotenti. Predomina la convinzione che non può essere umanitaria la guerra, anche se si vuole eliminare unicamente il tiranno.….
Hanna Arendt ci lascia il suo testamento: liberiamo l’idea di umanità da tutti i sentimentalismi. Carichiamoci della responsabilità dei crimini degli altri. Ogni volta che ci viene da imprecare contro i fantocci della storia (i Bush, i Saddam, tanti altri ancora), dobbiamo, invece, meditare su che cosa deve cambiare nella nostra vita e nel nostro modo di pensare, di credere, di amare.
E bando anche ai rimedi umanitari, sui quali ci piacerebbe poter contare. Meglio: bando alle emozioni fuggevoli tra odio e amore.
Se le ideologie si sono rivelate ingannevoli e le utopie inafferrabili, c’è sempre spazio per inventarsi un mondo diverso, a partire da quello che per la prima volta è stato concorde nel reclamare la pace.
A partire da…
Per arrivare a mettere la nostra pietruzza nel mosaico della storia. Piccoli pezzi di vario colore e forma, riusciranno a comporsi in unità, se risponderemo agli appelli della Storia, di cui siamo costruttori insieme a Dio.
Intanto ecco una meta possibile verso la quale avviarci:
Un "pluriverso" di grandi aree di civiltà che favorisca l’interazione il più possibile pacifica, anche se competitiva, fra di loro. Oppure: un regionalismo multipolare che potrebbe rendersi capace di ridurre - se non certo di bilanciare perfettamente ed eliminare - l’asimmetria delle forze oggi in campo e sconfiggere l’aggressivo unilateralismo degli Stati Uniti. E un’Europa meno "occidentale", più "orientale" e soprattutto più "mediterranea" che svolga una funzione di ridimensionamento della supremazia degli Stati Uniti. Una forte autonomia e identità europea potrebbe favorire una riduzione dell’uso arbitrario della forza internazionale e attenuare l’oppressione dei popoli più deboli e poveri, a cominciare da quello palestinese.
La pace con passione umana
Riportiamo a chiusura qualche frase del nostro amico Enrico Peyretti. Un modo, questo, per scegliere qualcuno a cui vogliamo stare accanto (e non sono pochi, se abbiamo occhi per riconoscerli):
"Ogni umano ha in sé tutta l’umanità, nel bene e nel male. Sono offeso, addolorato, indignato, sono reso sporco di fuori e colpevole di dentro, da questa guerra più oscenamente visibile, che mi ripresenta agli occhi tutte le altre guerre nascoste, in un boato spaventoso di male. Mi sento accusato e umiliato di appartenere a questa umanità. So che la guerra non è la più profonda e grave delle violenze. Le violenze strutturali e culturali sono più profonde, più gravi, più accettate, meno respinte, e sono radice e frutto delle guerre. Ma le guerre sono la loro epifania orrenda, manifestano, anche a chi non vuol vedere, il Grande Male. La guerra pone la domanda cruciale, che ci mette in croce: si può vivere o non si può vivere in un mondo che uccide, che organizza e studia e finanzia e comanda la morte data ad altri, come uno dei mezzi di azione, per raggiungere degli scopi, per incidere sulla realtà?
Una verità ha colpito il mio sguardo. Non una verità intellettuale, non una verità di fede, non una verità di parte, non una ideologia (come dicono per diffamarla), ma una verità biologica, prima e vitale come la nascita, come il respiro, come il mistero dell’esistenza. Una verità umile e misteriosa, che abbiamo in comune anche con gli animali senza altra parola che gli occhi, e con le piante silenziose e ferme, che bevono dalla terra e respirano col vento.
Quella verità è: non uccidere. Io l’ho imparata quel giorno, da quei tre uccisi. A me tocca stare attaccato a quella verità, ripeterla come eco del suono continuo del fiume accidentato della vita. Il movimento attuale per la giustizia (new global) e per la pace (not in my name) e’ ricco di possibilità. Porta le ragioni dell’umanità. Deve guardare più lontano della tragedia in corso, pensare più profondamente della indignazione, dello scandalo e del dolore. Il pensiero e la volontà di giustizia e di pace non ignorano nulla delle esigenze realistiche, della necessità di leggi e di sagge sanzioni, del bisogno di autorità responsabile, della (per ora irrinunciabile) funzione della forza pubblica a contenimento della violenza privata - forza che è diversa e opposta alla violenza bellica -, ma vogliono semplicemente invertire il senso di una politica che non è politica, fino a quando continua a mettere in conto l’uccidere.
L’ideologia degli USA faro di libertà per tutti i popoli del mondo. Ha una geografia dello spirito più che del territorio.
Ausilia Riggi Pignata