Redazionale del n° 8 (Ottobre 2002)
Da individuo a persona
A chi capita di dover viaggiare per il mondo in paesi sottosviluppati, non come turista, portato più a vedere che a conoscere, ma in condizioni che lo inducano a stabilire rapporti più profondi con la realtà locale, spesso accade di constatare come tra le persone vi sia una solidarietà e una disponibilità all’aiuto reciproco a noi sconosciute.
Nella nostra società ricca e consumista, prevale un forte individualismo dove ognuno si preoccupa prevalentemente del proprio benessere, della carriera, di ciò che possiede, di ciò che può procurarsi col denaro e le relazioni col vicino si riducono ad un buon giorno o buona sera.
A ben guardare non è sempre stato così. In un passato non tanto remoto la stessa solidarietà la troviamo nelle nostre società contadine o nei quartieri poveri delle città.
Nelle campagne, quando la vita era più dura e il lavoro dei campi più faticoso, e dai risultati incerti, i momenti importanti, quelli del raccolto, della vendemmia, della trebbiatura del grano, delle comandate per la manutenzione delle proprietà comuni, erano momenti collettivi, in cui tutta la comunità partecipava, ed erano anche momenti di festa, di condivisione.
Anche nelle città, nei quartieri dove l’indigenza era diffusa, nelle case popolari, era difficile che qualcuno morisse di fame o di solitudine tra l’indifferenza di tutti. Viene da chiedersi quale sia la causa del cambiamento che ora caratterizza la nostra società.
Io credo vada ascritta al venir meno del bisogno. Allora l’individuo non avrebbe potuto sopravvivere senza la presenza e l’aiuto di tutti i componenti della comunità. Le sue sole forze, le sue sole risorse, non sarebbero bastate. Possiamo perciò dire che l’individualismo nasce quando non si ha più bisogno uno dell’altro.
Ciò è vero anche di fronte alle calamità, alla guerra, ai disastri naturali. Improvvisamente la gente scopre che solo stando uniti e collaborando è possibile venirne fuori.
Nella nostra società dove, almeno sinora, ognuno ha potuto soddisfare i suoi bisogni grazie ai mezzi e agli strumenti che riesce a procurarsi col suo lavoro o che gli offre una collettività anonima: l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale, l’assicurazione e via discorrendo, dove ognuno può fare i suoi affari, senza aver bisogno di chiedere nulla a nessuno una volta che ha pagato il giusto prezzo, la solidarietà diventa un fatto di coscienza, per chi ce l’ha.
Non possiamo certo dire che questo modo di vivere sia migliore. L’individualismo esaspera la competizione, crea barriere, può generare emarginazione, solitudine, gli individui più fragili sono abbandonati a se stessi: tutti elementi che contribuiscono a creare una società del malessere.Verrebbe quasi da augurarsi un ritorno ai tempi difficili, alla povertà condivisa, al bisogno di una comunità di sostegno.
Ma può essere solo il bisogno a far superare l’individualismo esasperato che ora ci affligge?
Siamo sicuri che le comunità nate dal bisogno fossero veramente un modello di società condivisibile?
Ricordo che quando ero bambino, nel paese dove abitavo dove il senso della comunità e della solidarietà era forte, noi andavamo a tirare i sassi a quelli del paese vicino e si faceva a botte con loro, perché loro erano gli altri. Guai se un loro giovanotto si fosse azzardato a corteggiare una del nostro paese, sarebbe partita subito una spedizione punitiva.
Il rischio di una società i cui membri si sostengono e si aiutano vicendevolmente per sopravvivere, è quello di creare il clan, di creare un soggetto che rigenera, a livello collettivo un individualismo esasperato che si contrappone ad un altro.
L’idea di clan è un’idea di appartenenza che può estendersi dalla grande famiglia, al villaggio, alla regione, alla nazione, a quelli che parlano la stessa lingua, che praticano la stessa religione. In molti paesi sottosviluppati, le rivalità tra etnie e tra religioni diverse, sono alla base di immani massacri.
I grandi totalitarismi sono nati facendo leva sulla necessità di aggregare i popoli che si ritenevano eletti o perseguitati, elementi che danno un’idea di appartenenza, di condivisione, un’illusione di parità di diritti, di difesa di confini, di culture, di tradizioni.
L’individualismo escludente che si vuole combattere a livello personale a sostegno del gruppo di appartenenza, genera società chiuse, alla ricerca del proprio benessere, con le stesse caratteristiche individualiste che si vogliono combattere, società che finiscono con l’escludere chi non vi appartiene, di espellerlo come corpo estraneo.
Pertanto io credo che il superamento dell’individualismo per sfociare in un ordine retto dall’accoglienza e dalla solidarietà, non possa avvenire grazie a situazioni di bisogno che regolano pur sempre i rapporti sotto un profilo egoistico: io aiuto te perché così poi tu aiuti me. Soltanto con una crescita del livello etico di ogni singola persona, può crescere il livello etico di una società.
Lawrence Kohlberg, professore all’università di Harvard nella seconda metà del secolo scorso, elaborò una teoria secondo la quale le persone, in relazione alla loro crescita interiore ed etica, possono collocarsi su sei differenti livelli.
Nei primi due livelli, le persone agiscono in base a motivazioni dettate prevalentemente dalla paura di una sanzione o dai vantaggi che ottengono dal loro agire.
Nel terzo e nel quarto livello, agiscono non più in base a motivazioni centrate su se stessi, ma in base alle regole del gruppo di appartenenza o in base alla legge assunta in modo acritico. Credo che gli individui che agiscono nell’ambito di una società di mutua assistenza o con forti caratteristiche di omogeneità, possano collocarsi a questi livelli. Quando le cause che generano solidarietà vengono meno, o gli elementi costitutivi di un identità (religione, stato, origine comune ecc…) si sfaldano, è facile che prevalgano di nuovo atteggiamenti da primo o secondo livello.
Agli ultimi due livelli si collocano le persone che dopo aver fatto il percorso attraverso i livelli precedenti, hanno maturato una morale che va oltre il tornaconto personale, va oltre i valori del gruppo di appartenenza, va oltre le leggi quando sono ingiuste, ma assume come valore supremo la coscienza personale.
Solo a questi due livelli credo sia possibile che le persone riescano a relazionarsi tra di loro in libertà con rispetto reciproco e solidale, dando vita ad una società umanamente vivibile.
Una società fatta di persone anziché di individui, ogn’una con la propria identità, cultura, con le proprie convinzioni, ma aperta alla solidarietà al confronto e anche al conflitto, quando la coscienza lo esige, perché è solo da un rapporto dialettico con l’altro diverso che può nascere una società in divenire, pronta ad accogliere il nuovo, disponibile a rivedere posizioni superate, con un occhio alla memoria dei propri valori e l’altro al futuro, per rendere il presente degno di essere vissuto.
Giorgio Bianchi