Redazionale del n° 1 (Gennaio 2002)
Si vis pacem para pacem
Se vuoi la pace prepara la pace
Abbiamo scelto questo titolo, parafrasando l’antico detto latino ("Si vis pacem para bellum", cioè "se vuoi la pace prepara la guerra) perché ci sembra la giusta risposta alla sensazione di angoscia e di scoramento che il presente stato di guerra genera in noi. Costruire la pace nella giustizia è molto faticoso e richiede capacità di analizzare la situazione e di trasformarla.
Le trasformazioni però non possono essere opera di una minoranza; è necessario il coinvolgimento attivo di larghe maggioranze nel mondo. Questo si verificherà o no? La ragione sarebbe tentata di rispondere negativamente; la volontà, suffragata da alcuni deboli segni di speranza, potrebbe portarci a rispondere positivamente.
La guerra, che dall’Afghanistan rischia di estendersi alle più varie parti del pianeta, sta creando rovine di ogni tipo. Da novembre la paventata spirale di violenza si sta realizzando. Questo è il male che stanno cercando di presentare come una cosa normale, nascondendo tutti gli altri problemi (fame, sete, effetto serra, problemi connessi con la globalizzazione, ecc.). Un esempio? Su RAI 3 ogni mattina va in onda una intelligente trasmissione, che analizza di volta in volta due o tre problemi di attualità. Bene, dall’inizio della guerra questo argomento monopolizza quasi tutto il tempo, lasciando in ombra le restanti tematiche.
Si potrebbe obiettare che, nonostante tutto, la guerra talvolta produce "effetti collaterali" positivi: in Afghanistan è caduto il regime ossessivamente repressivo dei Talebani e nel nuovo governo potrebbero esserci ben tre donne! Tra esse forse una rappresentante della RAWA, che tanto si è impegnata, affrontando enormi rischi, per la difesa dei diritti delle donne e per l’educazione delle bambine. Eppure proprio questa ed altre associazioni hanno denunciato la dubbia credibilità democratica dei Mujaheddin, il loro maschilismo e le violazioni dei diritti umani di cui si sono resi e si rendono responsabili.
Pur volendo prescindere da ciò, occorre ribadire che, se le istituzioni e la società civile internazionale lavorassero con adeguate metodologie diplomatiche ed economiche, questi risultati potrebbero essere ottenuti senza far ricorso alla guerra con il suo tragico corollario di lutti e distruzioni.
Pensiamo a quel che si potrebbe fare per "risolvere" equamente la questione palestinese e quella curda e a quel che invece viene fatto, lasciando sostanzialmente mano libera ai più forti (governo Sharon e governo turco) ed emarginando l’ONU, e avremo esempi eloquenti di come non si lavori per la pace nella giustizia!
La necessità di "ridurre lo scarto tra i ricchi ed i poveri del mondo", per usare le parole di Susan George, e quella di tutelare l’ambiente e di governare al globalizzazione vengono ribadite con diverse accentuazioni da più parti: da Giulietto Chiesa a Gorbacev (Introduzione al libro G8/Genova – Einaudi 2001), dal residente della Banca Mondiale James Wolfensohn (cfr. La Stampa del 7/12/2001) all’appello di 100 Premi Nobel per la pace tra gli uomini e con il pianeta. In quest’ultimo si afferma, tra l’altro: "È tempo di voltare le spalle alla ricerca unilaterale di sicurezza, in cui cerchiamo di rifugiarci dietro ai muri. Dobbiamo invece insistere nella ricerca dell’unità d’azione per contrastare sia il surriscaldanmento del pianeta che un mondo armato Per sopravvivere nel mondo che abbiamo trasformato dobbiamo imparare a pensare in un modo nuovo. Mai come oggi, il futuro di ciascuno dipende dal contributo di tutti".
Pensare ed agire in modo nuovo, appunto! Come tenta di fare il movimento impropriamente chiamato "No – global" da Seattle a Genova verso Porto Alegre e oltre!
Questa trasformazione di mentalità è però molto difficile perché gran parte dell’opinione pubblica mondiale (quella che vota ovunque per le destre del tipo peggiore (dagli USA ad Israele, dal Centro America all’Italia) viene manipolata dall’informazione, specialmente televisiva, che non solo enfatizza e stravolge alcune notizie, tacendone altre, ma in numerose trasmissioni esalta gli istinti peggiori. Non per niente i poteri forti perseguono l’obiettivo del controllo delle emittenti televisive.
Certo, non mancano i giornalisti capaci e coraggiosi, né i programmi validi, ma nell’insieme vengono coltivati comportamenti negativi: arricchimento facile, abilità nell’imbrogliare e calpestare gli altri, arroganza, culto dell’immagine e dell’esteriorità e così via. Pensiamo ai milioni che si guadagnano senza fatica, rispondendo a domande insulse o semplicemente imbroccando la telefonata giusta. Questa può essere la risposta ad una domanda soggettiva, parzialmente legittima, anche se priva di orizzonte politico-sociale: trovare un "tesoro", appagare un "sogno nel cassetto", concedersi una lunga vacanza, non affannarsi quotidianamente a far quadrare un bilancio magro; la risposta però è certamente sbagliata. I telespettatori, specialmente i più giovani, vengono di fatto plagiati in quanto viene loro proposto un modello fondato sull’egoismo e sul denaro inteso quasi come valore assoluto.
Questi fenomeni si verificano in tutto il mondo, tuttavia il caso italiano, che possiamo chiamare con un neologismo – berlusconismo -, presenta delle peculiarità e delle accentuazioni negative, come dimostrano i giudizi che vengono espressi sul nostro attuale governo in altri Paesi europei.
Il conflitto di interessi e l’attacco all’autonomia dei magistrati, particolarmente pericoloso in un Paese in cui la mafia ed altre forme di criminalità organizzata sono presenti in modo inquietante, rendono oscuri il presente quadro politico e le prospettive future. I risultati "plebiscitari" delle recenti elezioni siciliane sono preoccupanti.
Queste considerazioni fanno sì che si chiamino in causa anche i comportamenti dei partiti di centro-sinistra, siano essi all’opposizione, come in questo momento, o al governo come nel recente passato. Si rivelano limiti, errori, "timidezze", incapacità di immaginare e additare nuovi orizzonti.
Questo atteggiamento porta all’accettazione delle guerra e delle sue conseguenze nonché del modello di sviluppo economico attuale con quello che esso comporta nel campo del lavoro, dell’ambiente, del welfare, dei rapporti con i Paesi più poveri e così via.
Tutto ciò naturalmente non vale solo per l’Italia, ma per tutti i Paesi, specialmente quelli più industrializzati. È cresciuta la complessità del mondo e perciò dovrebbe crescere altrettanto il livello della politica e cioè della gestione dei processi in corso.
Pensare ed agire in modo nuovo, per governanti e governati, ormai non è più solo una scelta etica, ma una necessità. Gli ostacoli sono grandi, ma occorre pensare che la mentalità della gente può cambiare purché non ci si stanchi di parlare, ascoltare, dialogare, proporre e verificare.
Minny Cavallone