Redazionale del n° 4 (Aprile 2001)
Laicità per addizione
Apriamo un giornale, camminiamo per strada, navighiamo lungo le rotte virtuali di Internet… è sorprendente il fatto che non ci sorprende più, ormai, l’imbatterci in donne e uomini, notizie e messaggi, provenienti da universi religiosi diversissimi l’uno dall’altro. E che fino a pochi anni fa avremmo semplicemente classificato fra le presenze "esotiche", curiose, stranianti, ignorando – in genere – che il "non possiamo non dirci cristiani" (valeva a dire "cattolici") di crociana memoria in realtà convive da parecchi secoli con fedi "altre", sia pur numericamente assai minoritarie: dalla più antica diaspora ebraica del vecchio continente ai primi protestanti su scala mondiale (i valdesi), da testimonianze rilevanti, a macchia di leopardo, di chiese di ascendenza bizantina fino alle documentazioni mute ma significative, in Sicilia e altrove, di non secondarie comunità della "umma" islamica. La novità attuale è che oggi tali presenze, ed altre ancora, non sono più nascoste, o confinate in spazi alquanto limitati, ma – appunto – palpabili, esuberanti, capaci di un’insospettabile visibilità sociale, soprattutto nel caso dell’ "islam d’Italia": sia quello giunto silenziosamente, con le valige degli immigrati, sia quello dei "nuovi musulmani", i sempre più numerosi nostri connazionali affascinati dalla parola del Corano. Ecco allora il proliferare delle metafore che cercano di fotografare positivamente una simile situazione, dal "mosaico della fede" (P.Naso) al "puzzle delle religioni" (F.Ballabio), fino a quella, bellissima, che amava prospettare un grande vescovo del nostro Sud, don Tonino Bello, parlando di un’auspicata "convivialità delle differenze". Una seconda novità è che il tutto sta avvenendo in una stagione che si è già lasciata alle spalle la fine della cristianità (nonostante i tardi epigoni che non se ne danno per inteso), e che per bocca persino di alcuni alti uomini del magistero (in primis, il cardinal Martini) non solo ammette che tale fine ha di fatto condotto la chiesa cattolica in uno stato di minorità, ma sottolinea anche che questo potrà rivelarsi, a gioco lungo, un vero e proprio "kairòs". Vale a dire, nella terminologia del Nuovo Testamento, un tempo particolarmente propizio alla salvezza e alla testimonianza evangelica.
Ed ecco, di converso, l’istintiva paura che attanaglia quanti hanno terrore del nuovo, temendo di dover rinunciare a consolidati privilegi, o quanti ritengono impossibile il confronto con l’alterità se non in chiave polemica o reciprocamente distruttiva: fino a creare un’oggettiva convergenza di interessi fra il laicismo qualunquista alla Giovanni Sartori di "Pluralismo, multiculturalismo e estranei" e l’integralismo clericale di un cardinal Biffi. Per non citare che di passaggio la bieca strumentalizzazione politica di formazioni che cavalcano con estrema disinvoltura l’oggettiva complessità di rapporti della cultura occidentale con alcuni settori islamici, nel palese tentativo di sostituire nell’immaginario collettivo diffuso il classico "nemico" comunista con quello "musulmano".
C’è un problema storico, alla radice della povertà di laicità autentica caratteristica del nostro paese. C’è la funzione decisiva dello Stato della chiesa, e – dopo l’unità d’Italia – la contrapposizione radicale di esso, o di quanto ne era rimasto, con le istituzioni del Regno: una contrapposizione che ha ingenerato l’opinione diffusa che, se da un lato i "laici" dovevano essere senza ombra di dubbio "antireligiosi" e "miscredenti", dall’altro i cristiani non potevano essere in alcun modo "laici". E dunque, le tematiche religiose sono state sempre percepite come "roba da preti", le facoltà teologiche sono state abolite senza troppi rimpianti, al contrario di quanto accadeva in Francia o in Germania, mentre la Bibbia si è mantenuta purtroppo un autentico oggetto misterioso, un vero e proprio – è stato detto felicemente – "libro assente". Di qui ("anche" di qui, perlomeno), gli esiti amari che sono sotto gli occhi di tutti: il provincialismo e le chiusure, la già citata ignoranza della Bibbia e delle cose religiose, la difficoltà di convivere positivamente con un pluralismo religioso, al massimo accettato di fatto ma malsopportato di diritto (rammento ancora l’esemplare commento del cardinal Biffi – ancora lui! - di fronte all’arrivo dei rifugiati kosovari in Sicilia, presumibilmente musulmani, al tempo della guerra del ’99: "Che vengano, però non credano di modificare l’identità culturale dell’Italia: perché, se lo Stato è laico, la nazione italiana è cattolica"). E il "Grande Giubileo" ipermediatizzato, da poco conclusosi, non poteva, non ha potuto, aumentare il tasso di laicità della nostra vita pubblica: anzi… Eppure, mi pare avesse mille volte ragione il presidente della Camera, Luciano Violante, quando nel febbraio del ’98, in occasione delle solenni celebrazioni per il centocinquantenario del riconoscimento dei diritti politici e civili a due minoranze religiose storiche, gli ebrei e i valdesi, sosteneva con forza: "In quale modo, di fronte alla sfida delle "molteplicità" di fedi, di culture, di etnie diverse, lo Stato democratico può costruire le "condizioni del reciproco rispetto" e quindi della accettazione e della convivenza non conflittuale? Penso che la risposta stia nella forte affermazione da parte dello Stato della propria laicità. La laicità è il presupposto del pluralismo, che è tratto ineliminabile delle democrazie e che non si riduce né a mera tolleranza, né a semplice relativismo". Lo Stato laico, intendeva dire Violante, non è il trionfo del relativismo, ma piuttosto quello in cui le istituzioni politiche e le organizzazioni confessionali sono legate da un rapporto di autonomia e di reciproco rispetto. Questo è ciò che Paolo Naso, proprio nel suo bel libro sul "Mosaico della fede" in Italia, chiama "laicità per addizione", capace di riconoscere particolari tradizioni che non ledano i diritti di nessuno ma, semmai, arricchiscano la comunità di nuovi valori e nuovi costumi: "sarà una laicità fondata su un "patto" in cui soggetti diversi, portatori di tradizioni e valori diversi, accettano di convivere nella stessa comunità civile, liberi di esprimere la propria identità ma anche tenuti a riconoscere e rispettare le norme che quella comunità si è liberamente data" (p.254).
Una laicità che, proprio perché non vi siamo abituati e spesso ne fraintendiamo il significato, va educata, curata, valorizzata. Come un bambino piccolo, ancora da svezzare. E con un impegno concreto e diffuso: innanzitutto, in funzione di una maggiore conoscenza delle religioni "altre" oltre che dello stesso cattolicesimo, sovente noto solo in chiave di tradizione (a quando una campagna seria e convinta per lo studio "delle" religioni nelle nostre istituzioni scolastiche?). E poi, in funzione di un’informazione più corretta sulle varie religioni da parte dei mass media, che si segnalano solitamente in tal senso per una notevole sciatteria, se non per vistose dosi di pregiudizio, letture stereotipate, banalizzazioni (si pensi, per fare appena un esempio, all’equazione comunemente accettata fra islam e fondamentalismo: come se non si dessero, in questi nostri anni, forme di fondamentalismi di marca ebraica, cristiana e persino hindu). Ma anche il linguaggio religioso andrebbe purificato: un linguaggio che talvolta tradisce l’ignoranza della realtà altrui, mentre talaltra rappresenta addirittura una voluta distorsione. Solo per accennare a qualche esempio, penso all’accezione negativa di "giudeo", "rabbino" o "fariseo"; all’abuso di "Vecchio Testamento", sottolineandone la superatezza in chiave di teologia della sostituzione; alla scelta di "Olocausto" in luogo di "Shoà"; al ricorso al termine "maomettani" per indicare i musulmani… ma penso anche che i cattolici, così come gli ortodossi e i protestanti naturalmente, dovrebbero smetterla di adottare tout court la parola "chiesa" per indicare la propria, accostando ad essa l’aggettivo qualificativo in questione (o ricorrendo, se è il caso, al plurale).
Certo, non sarà facile. Occorrerà tempo, pazienza e "parresìa". Occorrerà, per i cattolici, il coraggio di ammettere di esser divenuti minoranza, e di accettare la nuova condizione di abitatori di una "polis" multireligiosa, dicevamo, come un possibile "kairòs". In tal senso, siamo verosimilmente appena all’inizio di un itinerario tutto da costruire, giorno dopo giorno, e senza alcuna illusione di poter imboccare le scorciatoie dell’irenismo ad ogni costo, della semplicistica composizione dei conflitti, della "reductio ad unum" delle differenza e delle identità, che sono scorciatoie illusorie e prive di sbocchi. Il dialogo è l’incontro fra diversi, che si percepiscono come tali (e non come "nemici") e intendono specchiarsi nel "volto dell’altro", così come invitava a fare Emanuel Lévinas quale viatico migliore per avviarsi al nuovo millennio. E questa è anche la strada della laicità, quella della fedeltà alla terra e alle realtà penultime non meno che a Dio e alle realtà ultime. La più bella definizione della quale resta ancora, a mio parere, quella, non a caso tutta narrativa, del racconto del grande poeta israeliano Yehuda Amichai (scomparso lo scorso anno) su Gerusalemme, la città santa per eccellenza: "Un giorno Yehuda Amichai stava seduto con due panieri di frutta sui gradini accanto alla porta della Cittadella a Gerusalemme. Ad un certo punto egli sentì una guida turistica che diceva: "Lo vedete quell’uomo con i panieri? Proprio a destra della sua testa c’è un arco di epoca romana. Proprio a destra della sua testa…". Amichai si disse: la redenzione verrà soltanto quando la loro guida dirà: "Vedete quell’arco dell’epoca romana? Non è importante; ma lì vicino, più in basso, a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta e la verdura per la sua famiglia"".
Brunetto Salvarani