Redazionale del n° 1 (Gennaio 2001)
VIOLENZA SENZA FINE, FINE DELLA VIOLENZA
Lo stillicidio d'immagini e di notizie che provengono dalla Palestina - una "notte della ragione" (ma non solo di essa) che sembra non intravedere mai l’alba – ci spinge a riflettere sull’eterno tema della violenza.
I confronti con il passato sono inevitabili. La sensazione di vivere nel peggiore dei mondi possibili è forte, ma è il rischio che si corre quando non si sa andare oltre la propria contemporaneità. I brutali istinti dell’uomo hanno attraversato ogni epoca e farne un elenco richiederebbe, ammesso che sia sufficiente, un’intera annata di Tdf. Oggi, forse, la violenza è semplicemente più visibile, più "sparata" e tale da provocare effetti d’imitazione un tempo sconosciuti: secondo l’American Psychiatric Association, un ragazzino americano all’età di 18 anni ha visto in tv sedicimila omicidi e 200mila atti di violenza.
Ed è proprio dal mondo dei giovani che arrivano i segnali che destano maggiori preoccupazioni. Sono ormai molti e ripetuti gli episodi di ferocia gratuita che li riguardano e per i quali le motivazioni appaiono incomprensibili, prive come sono del pur brutale ed elementare legame tra mezzi e fini. Le cause sono diverse: noia, folle divertimento, gusto del brivido, dinamiche impazzite all’interno dei gruppi che frequentano. Non li aiuta sicuramente il clima competitivo – il tutti contro tutti – che contraddistingue il tempo che viviamo. La situazione del Giappone, a questo riguardo, è assai emblematica. Paese spesso citato per i suoi straordinari progressi economici, esso registra però inquietanti fenomeni di violenza minorile: "Ci sono state, negli ultimi vent’anni, trasformazioni significative nella mentalità dei giovani giapponesi? Non è da escludere che la società sia andata in corto circuito proprio mentre tutto sembrava funzionare correttamente" (così lo scrittore Kaoru Takamura in Le Monde diplomatique, settembre 1999). E’in aumento il numero delle famiglie in cui bambini picchiano i genitori, dei casi di adolescenti che raggruppati in bande scorazzano per le città alla caccia di passanti da assalire, mentre la scuola è teatro di una forma di violenza denominata ijimè (equivalente al nostro "torturare") che consiste in una gamma perversa di molestie fisiche e psicologiche perpetrate nei confronti dei ragazzi più fragili. E’ il frutto di una crescita economica dissennata, dove lo spazio per le relazioni sociali, la cura degli affetti all’interno delle famiglie, l’attenzione ai bisogni dei ragazzi è andato via via dileguandosi, mentre la scuola si è trasformata in una "giungla" prona alle esigenze delle aziende, altamente selettiva e che non ha alcuna pietà per chi rimane indietro. Sottolineare che la realtà italiana non è poi così distante da quella giapponese ci sembra persino superfluo.
Certo è che quello che ci lasciamo alle spalle è stato un secolo terribile, pieno di orrori e di brutalità. I totalitarismi – a destra come a sinistra – hanno tentato di stringerlo in un abbraccio mortale. In parte ci sono riusciti, soffocando le urla di milioni di persone, di uomini e di donne inermi, il cui futuro è stato cancellato in virtù d'ideologie aberranti. Ma c’è anche dell’altro, ed è la risposta a questa follia che nasce dalla ragione e dal cuore, dalla capacità di rompere, con coraggio e forza, quelle "regole del gioco" vendute come inevitabili. Quando Storace attacca i libri di testo adottati nelle scuole perché occulterebbero i misfatti del comunismo ha la vista un po’debole o meglio vede ciò che gli fa più comodo. Se rimozioni ci sono esse sono da cercare altrove e proprio il "secolo breve" è un esempio illuminante, con un’infinita serie di pratiche nonviolente (Enrico Peyretti, da anni e con certosina pazienza, sta costruendo una bibliografia dei casi storici di difesa senza guerra) che sono pressoché sconosciute molto di più delle foibe o dei gulag sovietici. A parte la straordinaria avventura gandhiana, sono ampiamente documentati casi di difesa popolare nonviolenta in Danimarca (1940-45), in Norvegia (1940-43), in Finlandia (1948), in Ungheria (1956), in Cecoslovacchia (1968), addirittura nella stessa Germania nazista e, più vicini storicamente a noi, la lunga resistenza nonviolenta degli albanesi del Kossovo e le rivoluzioni pacifiche del 1989 nell’Europa dell’Est.
Ecco, allora, che il Novecento, se non ci si limita a una sua lettura superficiale, è un secolo di grande speranza perché ci ha mostrato concretamente come sia possibile canalizzare l’aggressività umana in espressioni nonviolente. E’ la vecchia questione del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno? Può darsi, ma mentre sul primo giornali e televisioni non hanno lesinato commenti e analisi accurate, sul secondo hanno preferito glissare con nonchalance.
Perché la violenza? Non abbiamo, ovviamente, la presunzione di dare una risposta definitiva a un problema così complesso C’è chi sostiene che si tratti di una componente innata dell’uomo, chi invece la lega a ragioni di ordine economico, sociale e culturale. A ben vedere si tratta, in fondo, di una distinzione un po’speciosa perché anche le motivazioni "esterne" sono poi il frutto di scelte umane e dietro di esse si nascondono responsabilità che hanno nomi e cognomi ben precisi. Il problema vero è forse un altro e non è tanto quello di sapere se la violenza sia acquisita o innata, ma di capire piuttosto a "quali funzioni adempia, quali strutture la regolino, come si possa farsene carico in maniera positiva e per la specie" (Jacques Sèmelin, Per uscire dalla violenza, EGA, pag.26).
Senza dubbio - stiamo parlando sotto il profilo psicologico - è generata dall’angoscia della morte. Si tratta, a ben vedere, di una verità semplicissima (chi non l’ha sperimentata almeno una volta nella vita?): la paura di morire genera morte, costruendo un circolo vizioso e infernale che si può rompere solamente riconoscendo in chi ci sta davanti un altro "me stesso". Ed è proprio, anche se non solo, per il rapporto che hanno con la morte che le donne, in genere, sono meno violente degli uomini. Da millenni si occupano della cura dei morti e dei morenti, dovunque e in ogni tradizione, drammatizzano assai di meno di fronte alla sofferenza e per nove mesi vivono in perfetta simbiosi con un essere che è altro da loro.
Le religioni possono far molto nel contenere questa angoscia, mentre la storia, invece, ci racconta di un intreccio tra esse e violenza difficile da districarsi, a causa delle loro pretese esclusivistiche. Si tratta di recuperare un concetto diverso di verità, intesa più come percorso, ricerca, cammino che come dato fisso e raggiunto una volta per sempre. E in fondo il "viaggio" è una metafora attorno alla quale tutte le credenze religiose possono ritrovarsi: Abramo si sposta verso la terra promessa, Muhammad viaggia, Gesù è il profeta che cammina, l’ebreo di oggi, dopo Auschwitz, è un ebreo "errante".
Passa anche da un rinnovato spirito religioso l’alba che attendiamo per la Palestina.
Per la redazione
Fausto Caffarelli