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Redazionale del n° 10 (Dicembre 2000)

La festa della speranza

Si parla ormai sempre più spesso, del nostro, come di un tempo definitivamente "post-ideologico".

E'uno stereotipo, quello della cosiddetta "caduta delle ideologie", che come sempre contiene una buona dose di vero; molto più raramente, però, troviamo il coraggio di interrogarci realmente sulla portata di un simile fenomeno planetario, su cosa significhi nel profondo la crisi di quelli che J.F.Lyotard chiamava in maniera affascinante "i Grandi Racconti". Pochi, infatti, si interrogano attorno a che cosa valga davvero la pena sperare, per cosa si possa spendere la vita con qualche probabilità di non averla sprecata del tutto: cerchiamo dunque di farlo, mentre si sta avvicinando quel giorno di Natale che spesso viene a buon diritto definito "festa della speranza". E in effetti, sembra difficile persino pensare di poter fare a meno della speranza, di ciò che dà colore ai giorni che spettano all'uomo - direbbe il Qohelet - "sotto il sole".

Secondo Salvatore Natoli, sta dominando oggi una disillusione diffusa: non si sa a cosa appigliarsi, tutto è diventato equivalente, banale, e niente di quanto si vive risulta importante sul serio. Si badi, peraltro: è una considerazione che non è corretto applicare soltanto alle generazioni più giovani, come talvolta saremmo portati a fare, riservando ad esse il tradizionale pregiudizio di quanti, avendo qualche anno di più, rinunciano a cercare di capire e si limitano a rimpiangere nostalgicamente il bel tempo andato. Ci sono tanti, ad esempio, disponibili a dar credito alla miriade di imbonitori di passaggio pur di tentare di rassicurarsi, il che provoca un singolare miscuglio tra disillusione e creduloneria (le due cose non si escludono a vicenda, del resto).

"Eppure, nonostante tutto, si continua a sperare, anche se spesso ci si accontenta di minore e più corriva offerta... Ma è improbabile che gli uomini vivano senza sperare. Da dove, allora, questa infallibile speranza?". In ogni caso, penso sia indispensabile cominciare ad abbozzare una risposta che ci aiuti a chiarire la situazione di stallo, ed iniziare ad uscirne: lo sperare è un dato antropologico "fondativo" sempre collegato con un'idea di futuro, col bisogno e la voglia umanissimi di immaginare un domani migliore del presente, a partire da un'ipoteca positiva sull'esistenza. Se ci scopriamo a sperare, spesso nonostante tutto e tutti, è perchè la vita in quanto tale vale la pena di essere vissuta, e il meglio possibile. L'aveva colto bene - sorprendentemente - il pessimista per eccellenza del pensiero occidentale moderno, Giacomo Leopardi, che in un'annotazione dello "Zibaldone" sottolineava: "La speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita propriamente detta, come il proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo... Disperazione, rigorosamente parlando non si dà, ed è così impossibile ad ogni essere vivente, come l'odio verso di se medesimo".

Ma andiamo avanti. Il teologo e martire luterano Dietrich Bonhoeffer, nel suo estremo contributo - le lettere di "Resistenza e resa", vergate dal carcere nazista -, protestò ripetutamente contro un'eventuale speranza cristiana edificata sulle rovine dell'operare umano nel mondo, sull'annullamento di quelle che definiva le "realtà penultime", l'amore, il lavoro, l'amicizia. E le chiese, se pure possono esser lette come vere e proprie "assemblee della speranza", non debbono limitarsi a "gestire" i "momenti-limite", a fornire un salvacondotto in vista della sofferenza inevitabile, della malattia, della morte, come forse storicamente si sono trovate spesso a fare. "Per me il discorso sui limiti umani - scriveva ad esempio all'amico Bethge il 30/4/1944 dalla prigione nazista di Tegel - è diventato assolutamente problematico... Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell'uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l'irrisolvibile... La chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio". E non è casuale che egli, immediatamente di seguito, aggiungesse che "così stanno le cose secondo l'Antico Testamento", e ancora che "noi leggiamo il Nuovo Testamento ancora troppo poco a partire dall'Antico": un'annotazione ermeneutica strategicamente decisiva, che ci invita a non cadere in pericolosi eccessi spiritualistici e/o intimistici, nonchè a non sottovalutare, per dir così, tutta la "materialità", la concretezza dell'annuncio biblico di salvezza, che comincia "qui ed ora" e mai si può proiettare subito in un futuro ultramondano.

Se l'Antico può essere considerato "parola penultima", e il Nuovo "parola ultima", Bonhoeffer insiste continuamente sulla prospettiva secondo cui la "parola ultima" non può essere percepita se non viene prima percepita e vissuta la "parola penultima"; e di qui, sul fatto che l'Antico non rimanda ad un'immagine metafisica del mondo, bensì prevede un solo mondo - e non due! -, questo, in cui Dio, in modo non uniforme, si è reso e si rende presente. Nessuna fuga dalle responsabilità storiche, dunque, quale contenuto della speranza cristiana, ma piuttosto un appello pressante all'uomo stesso nel cuore delle contraddizioni della sua esistenza, delle sue forze, della sua felicità, al servizio dell'impegno su "questo" mondo: sino a non ammettere più, a dispetto della visione tradizionale, alcun quartiere religioso, alcuna zona franca indipendente, alcuna spaccatura fra "religio" e "saeculum".

Ecco, in sintesi, ciò che pensava Bonhoeffer a tale proposito, qualche mese prima del suo arresto: "Ci sono uomini che ritengono poco serio, e cristiani che ritengono poco pio, sperare in un futuro terreno migliore e prepararsi ad esso. Essi credono che il senso dei presenti accadimenti sia il caos, il disordine, la catastrofe, e si sottraggono nella rassegnazione o in una pia fuga dal mondo alla responsabilità per la continuazione della vita, per la ricostruzione, per le generazioni future. Può darsi che domani spunti l'alba dell'ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore".

Nella medesima direzione, successivamente, si muoverà colui che reinventerà letteralmente la teologia della speranza, Jurgen Moltmann: secondo il quale la fede si radica essenzialmente sulla resurrezione di Cristo, che a sua volta non è solo un avvenimento del passato rispetto al quale occorre fare memoria, ma piuttosto la promessa di una salvezza rivolta all'umanità intera. Il cristiano, pertanto, è un uomo chiamato a guardare con fiducia al futuro; egli attende che Gesù, dopo la sua prima venuta nella carne di un piccino ebreo di Nazaret, ritorni, e che finalmente il regno di Dio si venga a realizzare compiutamente. Vale a dire, "spera". Ma con ciò il credente adulto, secondo Moltmann, non rimane inerte a contemplare passivamente le cose del mondo, bensì opera all'interno di esso a favore della propria e dell'altrui liberazione: "nel cuore della intollerabile storia di sofferenze del mondo egli scopre la storia della sofferenza riconciliatrice di Cristo. E ciò gli dà la forza di sperare là dove non c'è più nulla da sperare, e di amare là dove ci si odia". La speranza autentica non consiste - come talora ci si illude che sia - in un ottimismo volontaristico o in un eroismo comandato. In realtà, essa è "un dono raro", grazie al quale l'uomo non fugge di fronte all'urgere insopportabile del presente per riparare furbescamente in un futuro migliore e consolatorio, ma introduce nel suo presente il futuro diverso, umano e vive già ora di esso. Tramite un simile dono, diventiamo in grado di proclamare che non è vero che "non c'è niente di nuovo sotto il sole", siamo trasformati nel profondo in quanto ci vengono rivelate le nostre nuove possibilità, siamo disponibili al rinnegamento di noi stessi (del nostro "uomo vecchio") per donarci completamente agli altri nell'amore: "La speranza, che è generata dalla memoria del Crocifisso, - si legge in <Uomo> - conduce allo sperare là dove non c'è niente da sperare. Essa non vede il futuro dell'uomo nel progresso bensì nelle sue vittime. I poveri, i sofferenti, gli erranti, coloro che non hanno un posto in questo mondo, questi sono l'utopia di Dio nel mondo. Questa sì può essere detta l'utopia cristiana....". Un'utopia ben radicata nella fatica di gestire la quotidianità, nei problemi complessi di ogni giorno, nella delusione di vivere in un "già e non ancora" che ci svela, ma contemporaneamente ci vela, la pienezza dell'eternità: la speranza delle donne e degli uomini della Bibbia, infatti, è in primo luogo attesa, attesa paziente del ritorno del Signore, che avverrà ma non sappiamo nè quando nè con quali modalità. C'è un verbo ebraico che significa "sperare", "essere teso", "aspettare", il verbo "qiwwah", etimologicamente connesso con una parola che viene utilizzata tecnicamente per indicare la corda dei muratori: quasi ad evidenziare che la speranza, nella tradizione ebraico-cristiana, non fiorisce unicamente dal desiderio, ma corrisponde all'<essere legati>, e con una corda forte, ad "Altro" da sé. Per questo, nel messaggio biblico, la speranza è sentire - nonostante tutto! - la costante prossimità col Signore, e diviene pratica di vita nella forma ad essa più propria, quella della "perseveranza": "nella speranza noi siamo stati salvati", come dichiara solennemente Paolo nella sua lettera ai Romani; "ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza" (8,24-25). E un po' oltre, indicandoci la fenomenologia di uno stile di vita rinnovato: "Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità" (Rom.12, 11-13). Lo sperare cristiano, dunque, è interamente radicato nella fede, nella consapevolezza di "esser legati" all'altro, e si esprime nella forma della perseveranza: un'altra virtù, guarda caso, oggi fortemente in crisi, soppiantata da appartenenze "leggere" e non di rado contraddittorie! Essere fedeli sino alla fine, in ogni momento del tempo, "sotto il sole", ecco quanto ci invita a fare la memoria di quel bambino figlio di Miriam.

C'è una preghiera composta da Dag Hammarskjold che sintetizza assai efficacemente tale condizione costitutiva del cristiano - che peraltro non annulla, anzi, il ruolo e il senso delle speranze "altre", dei nostri fratelli di ogni credo e di ogni nazione - dal titolo "Che io non disperi mai":

Tu che sei al di sopra di noi,

tu che sei uno di noi,

Tu che sei/ anche in noi,

che tutti ti vedano, anche in me,

che io ti prepari la strada,

che io possa render grazie per tutto ciò che mi accadrà.

Che io non dimentichi i bisogni degli altri.

Conservami nel tuo amore

come vuoi che tutti dimorino nel mio.

Possa tutto il mio essere volgersi a tua gloria

e possa io non disperare mai....

Un augurio, naturalmente, da estendere - in questo tempo liturgicamente forte del Natale - a quanti proprio in questi giorni sperimentano umanissimamente il buio della notte, il rischio terribile della disperazione. Buon Natale, dunque, e che sia finalmente per tutti un Natale impregnato di pace, shalom, salaam.

Brunetto Salvarani

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