Le incognite della vittoria di Hamas

Che la vittoria di Hamas segni una svolta storica lo si avverte dal ribaltamento delle previsioni della vigilia, che davano per favorita Al Fatah, la colonna portante, sin dal suo nascere, dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, fondata nel 1964) e dell’Anp (Autorità nazionale palestinese, nata nel 1994). Hamas ha conquistato la maggioranza assoluta con 76 seggi su 132, relegando Al Fatah al secondo posto con soli 43 seggi: ha schiacciato Al Fatah sia per il numero dei seggi nel Consiglio legislativo dell’Anp, ottenuti nelle votazioni per le liste nazionali, sia in quelle per le circoscrizioni, infatti il sistema elettorale era misto, maggioritario e proporzionale. In quelle nazionali Hamas ha ottenuto 30 seggi e Al Fatah 27; in quelle per le circoscrizioni il successo è stato ancora maggiore: 46 seggi rispetto ai 16 di Al Fatah. Hamas ha ottenuto un voto pressoché plebiscitario nella striscia di Gaza e ha vinto anche a Gerusalemme . Ha ottenuto la totalità dei seggi nella circoscrizione di Hebron e anche a Betlemme, con la sola eccezione di due seggi riservati per legge alla minoranza cristiana. La supremazia di Hamas nelle circoscrizioni conferma che nella scelta degli elettori ha avuto un peso dominante la reputazione di candidati non sospettati di corruzione o malgoverno. La vittoria nelle liste nazionali è segno indubbio di una politica più efficace nella difesa dei diritti dei palestinesi, e di voglia di democrazia.

Grande soddisfazione e festeggiamenti da parte di Hamas. Dal Forum di Davos, la città svizzera dove sono riuniti i grandi capi della politica e dell’economia mondiali, i leader di molti paesi islamici si sono uniti ai rappresentanti della Lega Araba per chiedere al mondo di accettare la vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi. Tra questi il presidente afghano Hamid Karzal, il presidente pakistano Pervez Musharraf, il presidente del parlamento irakeno Hajim Alhasani, il segretario generale della Lega araba. Il presidente pakistano, la cui dichiarazione riassume pressoché le altre, ha affermato che il mondo non dovrebbe chiudere la porta a Hamas ma fare pressioni perché si comporti nel modo giusto, ma le stesse pressioni, ha aggiunto, dovrebbero essere esercitate su Israele.

Un certo smarrimento tuttavia lo si trova all’interno di tutte le forze in gioco nel conflitto israelo-palestinese. Al Fatah nella sua parte portante aveva infatti ormai dato segni evidenti di abbandono della lotta armata e di riconoscimento dell’esistenza di Israele sul territorio palestinese. Questi segni sono il frutto di un lungo percorso iniziato immediatamente dopo la spartizione della Palestina alla fine della seconda guerra mondiale. Hamas, di recente formazione, ha, invece, nei suoi programmi al primo punto la distruzione dello Stato israeliano, in quanto occupante abusivo di una terra che spetta unicamente ai palestinesi. Di conseguenza nei suoi programmi operativi contempla ogni forma di lotta, compresa quella armata, la violenza dei kamikaze, e tutto ciò che può portare alla disincentivazione di Israele a continuare ad occupare territori che non spettano loro.

E di fatto sono questi i due punti attorno ai quali ruotano le posizioni e le contraddizioni di tutti gli “attori” del dramma: riconoscimento, da parte di Hamas, dello Stato di Israele e abbandono della lotta armata. Bush ha affermato: “Non vedo come si possa essere partner di pace con chi prevede nella propria piattaforma politica la distruzione di un paese. Allo stesso modo non si può essere partner di pace con un partito che ha anche un braccio armato”. Tuttavia in altre dichiarazioni ha detto che Hamas ha vinto con elezioni svoltesi regolarmente e quindi non può essere ignorato a priori ed ha insistito sui due punti discriminanti, accennati sopra, per poter negoziare. Anche Jimmy Carter a capo della missione di osservatori, in una conferenza stampa tenuta a Gerusalemme, chiede che si continui nell’azione di sostegno economico alla popolazione. “Il governo palestinese è bisognoso, si trova in ristrettezze economiche disperate. Spero che il sostegno al nuovo governo sia immediato”.

Il problema riguarda anche ed in modo particolare l’Unione europea che è tra i maggiori sovvenzionatori dell’Anp. Per altro la delegazione inviata nei Territori occupati dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha promosso pienamente le elezioni palestinesi, per il rispetto reciproco ed il pluralismo espresso, durante le operazioni di voto, da parte di tutti gli attori interessati.

Che l’atteggiamento nei confronti di Hamas non sia di chiusura assoluta l’ha confermato anche il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan: ”Qualsiasi gruppo che voglia partecipare al processo democratico deve disarmare, perché essere armati e, nello stesso tempo, sedere in parlamento presenta una fondamentale contraddizione. Sono sicuro che quelli di Hamas ci stiano riflettendo”.

L’Unione europea, assieme a Stati Uniti, Onu e Russia, che assieme formano il quartetto di mediatori del conflitto israelo-palestinese, si è riunito lunedì 30 u.s. per valutare le prime mosse concrete nei confronti di quelli che nelle liste nere Usa e Ue sono definiti “terroristi”, ma che sono diventati partito di maggioranza assoluta. Ne conosceremo presto le deduzioni.

Non è certo immune da conflitti interni di valutazione, e quindi di prassi, lo Stato di Israele, che sta attraversando un periodo particolarmente delicato, con l’uscita di scena dalla politica di Sharon, che aveva appena formato un nuovo partito di centro, Kadima, che cerca di far procedere, sia pure con molte ambiguità secondo gli avversari, il processo di pace. La sua assenza potrebbe essere un elemento che gioca in favore del nuovo partito e quindi non dovrebbe essere di freno al processo iniziato. Ma potrebbe anche dar forza, in assenza di un leader carismatico come Sharon, in risposta alla vittoria tra i palestinesi di un movimento che oscilla tra moderatismo e terrorismo, all’ala più conservatrice, il Likud. Le prossime elezioni di marzo in Israele daranno conto di questa contraddizione.

Sarà soprattutto Hamas a dover fare le sue scelte e dovrà governare cercando di scindere le forze moderate da quelle estremiste ed armate, infatti è Hamas stessa, con le sue opzioni, che segna l’ago della bilancia tra tutte le altre forze citate, che attendono dal partito vincente le prime mosse per poter dare un appoggio, oppure per ostacolare il cammino.

Un ultimo accenno ad Al Fatah, che, se da un lato ha il demerito di non aver saputo, attraverso tanti decenni di egemonia del mondo palestinese, gestire i rapporti con Israele, dapprima attraverso l’opposizione radicale e dopo con un atteggiamento di contrattazione, per le cause più varie non ultima la corruzione dei suoi dirigenti, d’altro lato ha tenuto alta la bandiera del popolo palestinese attraverso mille contingenze sfavorevoli, senza mai cedere all’avversario in modo disonorevole.

Ali Rashid esprime il suo rammarico per la sconfitta di Al Fatah in un articolo apparso su il manifesto del 27 u.s. “I palestinesi subiscono una guerra di distruzione sistematica da 60 anni. Fate il conto. Gli altri parleranno di fatto politico che ‘complica’. Ma l’amarezza che sente la mia generazione è un sentimento quasi esistenziale che riguarda soltanto noi. Una storia drammatica ma zeppa di ottimismo. Sogni giovanili di libertà, pace e democrazia che piano piano svaniscono per lasciarci la crudeltà della realtà e della storia, dove dalla violenza nasce solo violenza e la guerra produce solo disperazione e morte. Hamas è il prodotto della guerra subita da un intero popolo in tutti i momenti della vita quotidiana. Il processo di pace è morto non per Hamas, ma alla fine del 1995 insieme a Rabin, ucciso da un colono israeliano e rinnegato sistematicamente dalla destra israeliana.” Conclude tuttavia Rashid con parole di speranza: “Ma non per questo Hamas è solo un movimento terrorista. E’ un’organizzazine di massa radicata sul territorio, come le elezioni dimostrano…”

L’auspicio è che il processo di pace, indicato dalla “road map”, possa continuare e si possa giungere all’obiettivo auspicato di “due Stati per due popoli”, col riconoscimento paritario di entrambi.

(1 febbraio 2006)

Mario Arnoldi