Io voglio tu vuoi, noi possiamo

Dialogo con chi la Perugia Assisi l’ha fatta veramente

Ho chiesto a Maurizia Franzini, insegnante a Milano, emozioni, sentimenti e pensieri che l’hanno accompagnata durante la Marcia Perugia Assisi dell’ 11 settembre scorso.

 

D. Quali motivi ti hanno spinta a partecipare alla marcia della Pace?

M. F. Non avevo mai partecipato alla marcia della pace, anche se ho sempre seguito le precedenti edizioni con un interesse particolare, con l’aspettativa di trovarvi motivi di speranza nel futuro. Quest’anno mi è sembrato indispensabile esserci. Avevo letto l’appello della Tavola della Pace e avevo trovato particolarmente significative due scelte: associare la pace alla giustizia e alla lotta alla povertà; porre al centro della marcia il rilancio dell’Onu come “casa comune” dell’umanità, come istituzione internazionale capace, se riformata e sottratta all’unilateralismo dei più forti, di migliorare la vita del pianeta, di lottare contro la povertà, di far rispettare i diritti umani e di promuovere la pace.

Tutto questo alla vigilia del vertice internazionale Onu dei capi di stato dei paesi di tutto il mondo, riuniti per tentare una riforma dell’istituzione e per rilanciare gli obiettivi della Dichiarazione del Millennio, sottoscritta nel 2000.

Temi di grande respiro, largamente unitari, che toccano coscienza di tanti e sanno suscitare speranza, soprattutto se declinati in modo concreto nelle moltissime iniziative della settimana che ha preparato la marcia.

 

D. Dimmi quali sono state le emozioni dell’impatto con tanta gente di provenienza diversa?

M. F. Domenica 11 settembre, già prima delle sette del mattino, dopo un lungo viaggio in pullman, eccoci a girare per una Perugia splendida e segnata dalle manifestazioni dei giorni precedenti, con i bar ancora chiusi, ma le strade già piene di una gente particolare: piccoli gruppi di persone che si aggirano incerte, con facce un po’ assonnate, zaini, sandali, magliette bianche e tante bandiere arcobaleno. Alle otto e mezza, al Frontone, c’è già una ressa tremenda in cui, gomito a gomito, ci sono scouts e studenti, organizzazioni sindacali e comunità di base, vigili in divisa con i gonfaloni dei comuni, mamme con i bambini, uomini e donne, giovani e adulti di tutti i tipi, e anche molte persone di età matura, alcuni con i capelli bianchi.

I brevi discorsi d’apertura sottolineano con forza il motivo conduttore della manifestazione: Mettiamo al bando la guerra, mettiamo al bando la miseria, riprendiamoci l’Onu. Accanto alle bandiere arcobaleno, simbolo della pace, il bianco è il colore della Coalizione mondiale contro la povertà, e su strisce di stoffa bianca distribuite dagli organizzatori è stampata in rosso la parola d’ordine: stop alla povertà Si tarda a partire, ma finalmente la calca si scioglie, ci si comincia a muovere, e il corteo lentamente si distende lungo una bellissima strada in discesa, a tratti alberata, tra campi e uliveti, case dall’aspetto antico e, sullo sfondo, le colline ancora avvolte da una leggera nebbia mattutina.

 

D. Quali associazioni, striscioni e scritte ti hanno colpito maggiormente?

M. F. Tra le tante bandiere arcobaleno ce n’è una enorme, portata da un gruppo di scouts che occupa una ventina di metri di corteo e ondeggia al passo dei marciatori. Ci sono ragazzi con i rasta e magnifiche creste accanto a suore vestite di bianco, con in testa una fascia arcobaleno. Ci sono tantissimi gonfaloni di paesi, città e regioni (c’è perfino il gonfalone della regione Lombardia), sventolano le bandiere del Wwf, di Legambiente, dell’Arci, della Cgil e della Cisl, di organizzazioni universitarie, di disparati e vari gruppi del Movimento, la Rete di Lilliput, le associazioni della società civile, da quelle degli Amici della Pace a quelle del Mercato equo e solidale, dai Laboratori di creatività e quelli di intercultura, da Mani Tese a Emergency, dalle Onlus alle Ong, da Pax Christi alle organizzazioni di volontariato. Ci sono anche insegne di partiti, ma sono assolutamente minoritarie nella folla dei manifestanti. I gruppi sono aperti, si sfrangiano gli uni negli altri, alternati da bandiere e striscioni, spesso costruiti artigianalmente. Uno striscione di un gruppo del sud Italia porta a caratteri cubitali la scritta Appaciamoce, un signore regge una bandiera bianca ricoperta da strisce di carta colorata, ciascuna con un pensiero di pace; c’è un lenzuolo con scritto a pennarello Uniti per il trionfo della pace. Noi ci crediamo; ci sono tanti No al terrorismo no alla guerra; L’unica sicurezza e’ la pace e i potenti hanno bisogno di una marcia in piu’. E ancora I wont peace not only for me.

Ma gli slogan sono soprattutto legati al tema della povertà: I poveri del mondo non possono aspettare; Il futuro dell’Africa e’ nero; Lavori in corso per un mondo migliore. Un furgone riporta una citazione da Isaia, Giustizia e pace si baceranno. Una bandiera degli universitari dice Gli uomini la natura gli animali o si salvano o si perdono insieme.

 

D. Ventiquattro chilometri sono lunghi : come avete occupato il tempo della marcia?

M. F. Alcuni gruppi cantano, altri scandiscono gli slogan, altri ancora fanno musica con i flauti e i tamburelli. In certi momenti la voce della manifestazione è forte, possente, come quando si passa sotto il ponte San Giovanni. Ci sono anche momenti in cui si marcia chiacchierando con i vicini, o in silenzio, e c’è tempo per riflettere e per pensare.

L’emozione più forte che viene dall’essere inserita in questo flusso colorato è percepirne l’unità nella varietà, la tensione ideale che la unisce al di là delle differenze. Tutte le persone che marciano fianco a fianco rappresentano dei pezzettini di società, nella quale evidentemente si muovono secondo le logiche e i valori contenuti nelle parole d’ordine della manifestazione. E poiché la maggior parte rappresenta non solo se stesso, ciò che c’è intorno a me è solo la punta di un iceberg immenso. E’ una sensazione che allarga il cuore, dà forza, fiducia e speranza.

 

D. Che cosa pensi dell’impostazione data alla marcia, dei motivi che l’hanno animata?

M. F. L’aver legato strettamente la pace alla giustizia e alla lotta contro la povertà è una scelta decisiva che dà alla parola pace un contenuto non convenzionale e al ricordo dell’11 settembre 2001 un tono particolare. Nulla sarà più come prima, si era detto dopo quel tragico giorno. In effetti molte cose hanno continuato a cambiare su una china pericolosa e inquietante: la guerra in Iraq ha fatto decine di migliaia di vittime civili e continua a farne, in Afghanistan la situazione è quella di una guerra strisciante mentre il mondo è sempre più affamato, disperato e violento, l’ambiente violentato; il Wto non ha ottenuto risultati, gli Usa non hanno sottoscritto l’accordo di Kyoto; gli obiettivi della Dichiarazione del Millennio sono stati finora disattesi; gli attacchi terroristici si sono ripetuti con una frequenza crescente, l’autorità dell’Onu si è indebolita, la lotta al terrorismo ha assorbito ogni altra preoccupazione.

Allora per affermare la pace non basta dire no alla guerra e al terrorismo. Dare alla pace il contenuto della lotta all’ingiustizia e alla povertà, legarla alla riforma e al rilancio dell’Onu, è darle un respiro potente, unitario, planetario. Solo un modo di intendere la pace che abbia questa profondità può darci gli strumenti e la fiducia per combattere il terrorismo e per opporci alla logica della guerra, di ogni guerra. Ma, soprattutto, solo nella logica di una pace fondata sulla giustizia economica, sociale e politica possiamo pensare di contrastare quella “decivilizzazione” che tanto efficacemente Timothy Gaston Ash ha descritto nell’articolo apparso su Repubblica l’8 settembre scorso, commentando i saccheggi e gli episodi di sciacallaggio verificatisi a New Orleans.

 

D. Quali prospettive di speranza pensi che la marcia possa infondere nelle persone?

M. F. Gli uomini, la natura, gli animali o si salvano o si perdono insieme dice uno degli slogan della marcia. Fra la gente che cammina si respira questa consapevolezza. Lo spirito di solidarietà, di unità, la sinergia fra modi anche molto lontani e diversi di operare nella società, di cui ciascuno è portatore, deriva dalla condivisione dei valori della marcia, dei valori della giustizia, della lotta alla povertà, della pace. Questa è la civiltà in cui possiamo sperare perché la società qui rappresentata è civile, nel senso più alto.

Ad un certo punto il corteo affianca la tangenziale di Perugia. Al di là del guardrail auto ferme in coda, al di qua il fiume colorato che procede cantando. Due facce della nostra civiltà, che suggeriscono da un lato il suo declino, dall’altro la possibilità di salvezza, la rinascita.

Guardo le persone che camminano, molte ormai affaticate. Certo la marcia è anche fatica, sacrificio. Due notti in pulmann, 25 chilometri a piedi: chi lo farebbe se non condividesse, se non credesse fino in fondo ai valori che la marcia proclama? Una condivisione vissuta e manifestata in modo non epidermico, perché sancita dalla fatica e dal sacrificio.

Questo atteggiamento esistenziale, questa visione del mondo, che ha portato a Perugia 200.000 persone, mi è sembrata una risposta all’analisi di Timothy Ash: è questa la prospettiva in grado di rafforzare e di allargare quella sottile “crosta” che, come scrive l’antropologo americano, ci separa dalla barbarie, dallo stato dell’homo homini lupus descritto da Hobbes e rivissuto per qualche giorno a New Orleans.

E mi è sembrata una potente dichiarazione di fiducia: se io voglio che l’umanità si salvi, e anche tu lo vuoi, allora noi possiamo.

 

(1 ottobre 2005)

Mario Arnoldi