Angelicamente anarchico
Un libro per l’estate. Don Andrea Gallo, Angelicamente anarchico, autobiografia, ed. Mondatori, 2005. Sarebbe meglio parlare di un libro per la vita. L’estate è semplicemente una stagione in cui abitualmente si ha più tempo per leggere. Le presentazioni e le recensioni del libro sono state diverse, nelle nostre zone, cioè al nord, ma anche in ogni parte d’Italia, perché il lavoro di don Gallo non ha confini e quindi anche la sua risonanza è estesa. Cercherò in queste poche note di trascrivere alcune pagine che mi sono sembrate il perno attorno al quale ruota tutto il libro. Evidentemente lo scopo è di sollecitarvi a leggere il testo, possibilmente facendovelo prestare per non dare troppi soldi all’editore… Sono un prete da marciapiede. “Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo: chierico rosso, prete comunista, protettore dei tossici. Ma si sono dimenticati che sono anche amico delle prostitute, dei devianti, dei balordi, dei border line, dei migranti, di quelli che viaggiano ai margini della società. Un prete da marciapiede, insomma. E’ lì che vivo, ogni giorno e ogni notte, cercando la speranza insieme alle persone che incontro. E’ lì che mi è stata insegnata la vita.” (p. 10) Ho iniziato con un sacco a pelo. “Trent’anni fa sono sceso in strada in compagnia di chi ha voluto unirsi a me. Ho iniziato con un sacco a pelo e oggi, camminando senza sosta, nella nostra Comunità di San Benedetto ospitiamo oltre cento residenti e svariate attività che vanno dal ristorante alla bottega dell’artigianato, fino alle iniziative in favore dell’America Latina. Sulla nostra esperienza il regista GF Miglio ha girato un film documentario dal titolo Ultimo treno. ‘ma questo film non finisce in modo trionfalistico’, ha detto uno studente dell’Università di Genova dopo la proiezione…Quando ho cominciato quest’avventura ero consapevole del fatto che non sarei stato capace di risolvere il problema del Male, ma non per questo mi sentivo dispensato dall’occuparmene. Avevo un motto: AMA IL TUO SOGNO SE PUR TI TORMENTA.” (p.95) La mia porta non ha campanello. La sede principale della mia comunità non ha insegne e nemmeno un campanello. Non so spiegarmi perché, ma, nonostante l’anonimato, tante persone continuano a presentarsi alla mia porta, di giorno di notte, sicure di trovare altre persone pronte ad accoglierle. E’ il passaparola della sopravvivenza, che arriva alle orecchie di chi ha bisogno di pasto caldo, di una mano cui aggrapparsi, di una speranza.” (p.54) Il primo tossico. “Il primo tossico che ho raccolto era riverso a terra. Collassato, aveva perso i sensi. Ero insieme ad un commissario giovane e pieno di zelo. ‘E allora cosa facciamo?’ mi chiese, animato da un sincero desiderio di aiutare quel ragazzo. Era l’ottobre del ’74, a Genova. I tossicodipendenti erano ancora pochi. Ci incamminammo verso l’ospedale più vicino, il Galliera. Ci cacciarono subito via: ‘Un ospedale non può accogliere un tossicodipendente. Lo dice la legge’. Allora si identificava il consumatore con lo spacciatore. Girovagammo per un’ora, di ospedale in ospedale, mentre il commissario era costretto a fargli la respirazione bocca a bocca. Nessuno ci aprì la porta. Alla fine fummo costretti ad andare in manicomio. Il tossico si riprese, tornò uomo, si laureò, e oggi ha un lavoro ed una famiglia. Pur con tanti errori e difetti cerco di fare quello che posso per gli altri. So di non essere onnipotente, ma non voglio concedermi la scusa dell’impotenza.” (p.56) Alice. “Quando penso al carcere mi vengono in mente i pochi, troppo pochi percorsi di liberazione a cui ho assistito. Alice era una ragazza che faceva la vita. Anche per lei, alle spalle, un’esistenza di maltrattamenti, droga, sbandamenti e solitudine. La sua era una situazione insostenibile e quando arrivò il momento della rottura con la sua maîtresse, fu vittima dell’immancabile pestaggio punitivo. Alla fine, come sempre accade, fu solo lei a pagare con il carcere. Dietro le sbarre arrivò tra le mani di Alice L’inganno droga, il libro in cui cerco di spiegare la filosofia della nostra comunità rispetto al problema della tossicodipendenza che ho pubblicato per Sensibili alle foglie la casa editrice di Curcio. Alice ne restò colpita e grazie all’aiuto di un’assistente sociale si mise in contatto con noi. Ci conoscemmo in carcere e, nel giro di poco tempo, riuscimmo a ottenere un permesso per accoglierla in comunità. Il suo percorso è stato profondo, lineare, straordinario. Oggi si prepara a sostenere l’esame di maturità. Alice si sta liberando dai ceppi veri, quelli della sua anima.” (p.78) Sulla gestione della comunità. “Nella nostra comunità si vive in autogestione. Esiste una prima accoglienza, in seguito io mi preoccupo di ragionare con chi vuole entrare, stabiliamo un percorso di un certo tipo, infine chi vuole uscire dalla dipendenza si stabilisce in una delle nostre cascine sparse per la Liguria. Lì parte l’autogestione, cioè l’etica della responsabilità personale. Aiutato dagli altri, aiutati da te. Questo non significa che non abbiamo regole. Ogni cascina stabilisce le proprie, le più efficaci a fare comunità.” (p.112-113) Bocche di rosa. A volte mi chiedo quanti ne sono passati per la porta della nostra comunità, dei lebbrosi di oggi, avanzi che la marea ributta a riva, sfiniti a vent’anni, sfruttati dalla malavita, delinquenti non decisi a smettere, alcolisti cronici, drogati di tutte le sostanze, scavati dall’AIDS, scaricati in qualche gomito del porto o a un binario di testa dalla nave Mondo, dai treni dell’Est, utensili umani giudicati inutilizzabili, minacciati, ricercati, inseguiti? La polizia stessa, quando in stazione trova qualcuno che non sa da che parte andare, una volta sul marciapiede, lo accompagna alla nostra comunità, dove c’è almeno la certezza che sostegno e anima non mancheranno. Con la Bossi-Fini c’è più controllo e meno commercio carnale sulle strade, ma di prostitute ne sono arrivate comunque a ondate, in dieci anni: prima le sudamericane, poi le nigeriane, le albanesi, le slave… Le più infelici, le più straziate dagli sfruttatori, sono ricattate senza fine, umiliate sino a dover usare , come assorbenti, pezzi di giornale. Ne ho conosciute alcune che, rimaste incinte e prese a calci nel ventre perché abortissero, scapparono a San Benedetto: e fu scandalo per gli aborti assistiti e urgenti che sollecitai all’ospedale di Sanpierdarena, forzando il dogmatismo etico della Chiesa per permettere a quelle poverette di uscire misericordiosamente da una gravidanza impossibile. Quando l’afflusso di prostitute è grande, la nostra comunità, di notte, manda in giro un pulmino che distribuisce tè caldo e caffè caldo, generi di conforto, preservativi (che verranno rifiutati dai clienti). Quello che la nostra società può fare è creare un sistema che le protegga dallo sfruttamento di individui senza scrupoli.” (p.116-117) Il diritto di dire no. “Rivendico il sacrosanto diritto di dire no a una qualsiasi autorità religiosa, scientifica, filosofica e artistica. Credo al contrario nella possibilità del cercare, dello sperimentare, del dire e del fare. Riconosco – ma criticamente – ogni autorità, ma vorrei che fosse portato lo stesso rispetto nei confronti della libertà di autogestione e opposizione. Dire di no ad una qualsiasi autorità non è qualcosa di puramente negativo, ma può significare l’adesione a un ‘qualcosa’ per il quale vale la pena di impegnare la propria esistenza. Nella nostra comunità amiamo molto il romanzo I fratelli Karamàzov di Dostoevskij. Per il gruppo cristiano della comunità è di grande interesse il punto in cui il grande inquisitore rinfaccia a Gesù di aver concesso la libertà, ragion per cui fu necessario emendare il Vangelo. Nella nostra comunità, in quanto cristiani, abbiamo cercato di non farlo”. (p.100). “Vorrei ricordare la testimonianza di don Milani: In merito alla nostra abitudine di dividere le persone con cui viviamo in italiani e stranieri, quindi in ragazzi normali e non normali, don Milani affermava: ‘Allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati ed oppressori dall’altro, gli uni sono la mia patria, ecco la mia scelta, gli altri i miei stranieri’”. (p.97-98) Interessanti infine i testi sulla sua ideologia, che preferisce chiamare utopia possibile, un misto di Anarchia, di Vangelo e di Marx; gli scontri con le autorità ecclesiastiche e civili, sempre in qualche modo composti per l’urgenza umana dei casi presentati; il ricordo dei grandi amici che lo hanno sostenuto e incoraggiato, Dario Fo, Beppe Grillo, Manu Chao, Vasco Rossi, che scrive la prefazione al libro, Moni Ovadia, il compianto Fabrizio De André e tanti altri. Chiudo con due ultime citazioni. L’ottavo vizio capitale. “E’ difficile dire oggi quale sia il peccato più praticato. Secondo me, addirittura, ne abbiamo inventato un ottavo, composto dalla miscela dei sette vizi capitali. Più che la sola ira, l’invidia, la superbia, l’accidia, la gola, la lussuria, o l’avarizia, vedo un mondo dove è largamente diffusa l’indifferenza, summa massima di tutti i peccati. Se è peccato fingere di non vedere la miseria, è peccato anche non prendere posizione, restare immobili, non intervenire, trincerarsi nei privilegi e nelle sicurezze acquisite. Conosco la sofferenza fin da ragazzo e ho imparato che l’unico modo per sconfiggerla è la condivisione.” (p.56-57). Ed infine una breve poesia per Fabrizietto, morto per un’overdose.
(1 settembre 2005) Mario Arnoldi |