Requiem per la res pubblica italiana
Il 24 marzo, nel passato, sono avvenuti tra i tanti avvenimenti due fatti gravissimi. Nel 1944 i nazisti fucilarono alle Fosse Ardeatine 355 italiani per ritorsione contro un’azione partigiana ed il 24 marzo 1980 Mons. Oscar Romero fu ucciso mentre stava celebrando messa a San Salvador. Romero si batteva per i poveri contro il governo e pagò con la vita la sua dedizione. In questo stesso giorno dell’anno in corso, i media riferivano che il Senato italiano ha votato le “riforme” alla Costituzione, che stravolgono lo spirito stesso della carta scritta al termine della II guerra mondiale dai rappresentanti delle diverse forze politiche e culturali che si erano battute per liberare l’Italia dal nemico nazista e fascista. Quella Costituzione era il frutto di un compromesso nobile e condiviso da tutta l’Assemblea Costituente, non cioè un puzzle di concessioni a questa e a quella fazione, ma la sintesi degli aspetti migliori che quelle correnti avevano ed avrebbero ancora espresso nella vita politica italiana intesa come bene comune. Nulla è perfetto, ma quella Carta costituzionale godeva della stima e dell’ammirazione sia degli italiani più sani sia delle altre nazioni. Oggi invece le “riforme” alla Carta, numericamente eccessive, sovvertono il senso del precedente testo e sono il segno dell’asservimento ad interessi di parte. La votazione stessa, avvenuta a maggioranza contro, e non con, l’opposizione, è il sintomo di un comportamento di parte non certo definibile democratico, se non nella sua forma esclusivamente numerica. In Iraq ed in altri paesi, in nome della democrazia numerica imposta dall’alto, la società civile è dilacerata da divisioni e conflitti sanguinosi che svuotano dal di dentro, anzi rendono ridicola - se non si trattasse di tragedia – la democrazia formale o delle maggioranze imposte dalla forza. Due sono gli aspetti che nelle “riforme” italiane urtano contro lo spirito della stessa Costituzione. Innanzi tutto la materia che va sotto il nome di premierato forte. Il Premier, eletto di fatto direttamente, non ha più bisogno del voto di fiducia, nomina e revoca i ministri, chiede di sciogliere la Camera. Il Capo dello Stato nomina il Premier sulla base del risultato elettorale, scioglie le Camere e indice nuove elezioni su richiesta del Premier. I deputati della Camera diventano 500, più 3 deputati a vita e 18 eletti all’estero. Per essere eletti bisognerà aver compiuto 21 anni. La Camera può proporre la sfiducia costruttiva, ma solo nell’ambito della maggioranza collegata al Premier. Il Senato Federale – così verrà trasformato il secondo ramo del Parlamento - i cui appartenenti diventeranno 252, saranno eletti in ciascuna regione contestualmente ai rispettivi consigli. Il Senato legifera nelle materie “concorrenti” fra Stato e Regioni. Nella Consulta i giudici restano 15, ma salgono da 5 a 7 quelli di nomina parlamentare. Quattro sono nominati dal Capo dello Stato, quattro dai magistrati. Una somma di prerogative concesse al Premier quasi ignota perfino alle più importanti democrazie occidentali di stampo maggioritario. Il risultato è non solo un ulteriore, quasi definitivo, indebolimento del ruolo del Parlamento, ma una drastica riduzione dei poteri effettivi del Presidente della Repubblica, che non sarà più il garante dell’unità nazionale. Tutte le assemblee elettive, tutti i luoghi della rappresentanza tendono ormai a diventare, istituzionalmente e politicamente, pure comparse. Così commentano non solo l’opposizione ma tutti coloro che sono liberi da “servo e prezzolato encomio”. Il secondo aspetto va abitualmente sotto il nome di “devolution”. La Repubblica viene spezzettata in piccoli Stati. Alle Regioni compete la potestà legislativa esclusiva su assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica e definizione dei programmi d’interesse regionale, gestione degli istituti scolastici, polizia amministrativa regionale e locale e ‘ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato’. Se questi elementi accontentano la Lega, per Alleanza Nazionale c’è la clausola d’interesse nazionale: il governo può bloccare una legge regionale, invitando la regione a cancellare alcune norme, appellandosi al limite al Parlamento in seduta comune. C’è inoltre una clausola di supremazia per la quale il governo può sostituirsi alle regioni quando ci sia il mancato rispetto di norme internazionali o pericolo per la sicurezza pubblica. Il commento dell’opposizione progressista è prevedibile. La sostanza del federalismo non è neppure il decentramento: è la distruzione dello stato sociale unitario, come erogatore di diritti universali, garantiti a tutti i cittadini e cittadine e di vere e sostanziali pari opportunità. Quindi l’affermazione di un potere pubblico che diventa ‘debole con i forti e forte coi deboli’, mentre i bisogni sociali vengono consegnati alla logica del mercato e dell’impresa. I due aspetti della ‘riforma’ quindi corrispondono tra loro. Un Premier sempre più ‘assoluto’, slegato dal controllo ella sovranità popolare e, d’altro lato, una privatizzazione incentivata del sapere, dell’istruzione, del diritto a curarsi, con un paese spezzettato e asservito al primato dell’egoismo sociale e della legge del più forte. L’opposizione si prepara a combattere con lo strumento legale e pacifico del referendum. L’attuale Presidente del Consiglio, che teme le elezioni, vuole rimandare il referendum a dopo le elezioni politiche del 2006. Si dovrà lottare perché questo avvenga prima di tale scadenza. Si può concludere opportunamente con la riflessione proposta da Ida Dominijanni, che, dopo aver elencato e spiegato diversi “si poteva evitare…”, che ripercorrono le occasioni perdute dal centro sinistra sulle riforme, afferma: “Esiziale sarebbe per l’opposizione restare paralizzata dall’annosa paura che difendere il patto del ’48 significhi macchiarsi di conservatorismo e che riconfermarlo significhi riscriverlo nello stesso senso, solo un po’ più moderato, del centrodestra. La Costituzione non va né difesa come un totem né stracciata come un certificato scaduto: va rilanciata, nel suo spirito originario, all’altezza del presente. Magari con un occhio puntato alla Costituzione europea, cornice necessaria, ancorché a sua volta controversa, per smarcarsi dal talk show della transizione nazionale e compiere il salto che la storia impone davvero dal Novecento al secolo nuovo”. (il manifesto, 24 marzo ’05). (1 aprile 2005) Mario Arnoldi |