Nel presepe quale bambino metterò?
Contro la retorica buonista
La tradizione cristiana ogni anno rinnova la memoria dell’evento della nascita di Gesù di Galilea, e lo fa col Bambino del Presepe, che dà inizio ad una storia nuova che si concluderà con l’avvento del Regno della pienezza della giustizia e della pace. Tra questa nascita e quella pienezza la strada è lunga, passa attraverso convergenze e confitti tra le persone, attraverso le guerre, le morti, naturali o causate violentemente. Lo stesso Gesù Bambino è destinato ad essere un giorno ucciso dai suoi oppositori. Tuttavia rinascerà attraverso l’azione dei suoi discepoli, sino a giungere al momento sperato del trionfo del bene sul male. Ormai da duemila anni la memoria di quella nascita, rappresentata dai tempi di San Francesco con l’allestimento del Presepe, è sempre differente per la diversità dei tempi storici in cui avviene e per i significati reali e simbolici che ne conseguono. Per questo motivo è legittimo chiedersi oggi: quale Bambino metterò quest’anno nel Presepe? Vediamo alcuni fatti di cronaca. A metà dicembre il Rapporto FAO ci informava dell’insicurezza alimentare in crescita. Ogni anno 5 milioni di bambini muoiono di fame. Muore un bimbo ogni 6 secondi sulla terra. All’economia mondiale la sottoalimentazione cronica costa tra i 5 e i 10 punti di PIL. Crea deficit produttivo pari alla scomparsa di un paese come gli Stati Uniti. Nel biennio 2000-2002, preso in esame dal Rapporto, il numero delle persone sottoalimentate invece di diminuire è cresciuto: sono state 852 milioni, 9 in meno rispetto agli inizi degli anni ’90, ma 18 in più rispetto alla metà dello scorso decennio. 815 milioni vivono nei paesi sottosviluppati, 28 in quelli in via di sviluppo, 9 in quelli industrializzati. Oltre alla morte ogni anno di 5 milioni di bambini sotto i 5 anni, fame e malnutrizione ne fanno nascere 20 milioni sottopeso, condannati a diventare, se sopravvivranno, adulti con ridotte capacità lavorative, d’apprendimento e di sostentamento. I 18 paesi con oltre il 35% della popolazione sottoalimentata sono tutti in Africa. Il record negativo, il 78%, spetta all’Eritrea, seguita dal Burundi, il 68%. Il Rapporto indica strategie diverse per superare questo grave problema che attanaglia il pianeta. Progetti interessanti, ma sempre disattesi, che difficilmente permetteranno di dimezzare la sottoalimentazione entro il prossimo 2015 com’era stato prefissato. Ma non il 2015 si dovrebbe attendere, supposto che la cosa fosse possibile con l’economia del profitto attuale: subito il mondo si dovrebbe arrestare per una redistribuzione equa dei beni che permetterebbe ampiamente di arginare il problema. Tra le molte tabelle del Rapporto, una evidenzia la perfetta sovrapposizione tra sottoalimentazione, analfabetismo e frequenza scolastica. La fame erode la capacità di apprendimento e la frequenza scolastica. Le vittime di questo flagello, oltre i bambini, sono le donne che costituiscono i due terzi degli analfabeti nel Terzo mondo. D’altra parte Jena, il corsivista de il manifesto, con sarcasmo che rasenta il cinismo, rappresenta il bimbo ben nutrito dell’Occidente, ma anche da noi le cose cominciano ad andar male, scrivendo : “Menù: latte e biscotti a colazione; pasta con spinaci, cotoletta di pollo e frutta a pranzo; una fetta di torta a merenda; uovo, pastina in brodo, frutta e yogurt a cena. Il mio bambino non muore di fame.” (il manifesto, 9 dicembre 2004). Il giorno precedente al Rapporto FAO, i media ci informavano delle cifre dell’occupazione, dei livelli retributivi e della relativa ricchezza e povertà nel mondo, fornite dall’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) di Ginevra. L’ILO denuncia per il lavoro le troppe forme di impiego sottopagato che ancora resistono. 185.9 milioni sono i disoccupati nel 2003. Questi sono la punta dell’iceberg della mancanza di lavoro dignitoso; infatti le persone occupate ma in povertà sono 7 volte tanto; 2.8 miliardi di persone hanno un lavoro, secondo i dati del 2003, la cifra è la più alta mai censita, ma di questi quasi 1.4 miliardi vivono con meno di 2 dollari al giorno; il tasso di disoccupazione globale è in costante ascesa, era infatti circa il 5.6% nel 1993, diventato 6% nel 1997, 6.3% nel 1999 e 6.2% nel 2003. A volte, però, inaspettatamente la realtà ci suggerisce qualche spiraglio di speranza. Su Internazionale, 26.11/02,12, n.567, anno 12, leggo che centinaia di soldati americani scelgono di disertare. “Sei bambini erano stati uccisi in un attacco vicino alla mia postazione. Non so se è stata la mia unità. Ma mi sento responsabile”, dice uno di questi. Ed un altro: “Le persone con cui prendersela non sono quelle contro cui combattiamo, ma quelle che ci hanno messo in questa situazione”. Particolarmente significativa la storia di Mike Hoffman. Quando è arrivato in Kuwait, nel 2003, il sottufficiale di grado più alto della sua unità è stato subito sincero: “Non andate in Iraq per portare la democrazia. Andate lì per un motivo solo: il petrolio. Ma dovete andarci comunque, perché avete firmato un contratto. E dovrete riportare a casa i vostri amici”. Hoffman, che aveva i suoi dubbi sulla guerra, ha provato un senso di sollievo, non si sarebbe infatti mai aspettato di sentire da un superiore un giudizio così schietto. Ma solo dopo aver passato alcuni mesi in Iraq ha cominciato ad afferrare pienamente il significato delle parole del sergente. “Le ragioni della guerra erano sbagliate”, dice. “Erano tutte menzogne. Non c’erano armi di distruzione di massa. AlQaeda non c’era. Ed era chiaro che non potevamo imporre la democrazia con la forza”. Hoffman racconta che, tornato a casa, nell’agosto 2003, e ottenuto il congedo con onore, ha capito immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare da lì in poi. “Dopo esser stato in Iraq e aver visto che cos’è questa guerra, mi sono reso conto che l’unico modo per sostenere i nostri soldati è chiedere il ritiro di tutte le forze presenti in Iraq”. Hoffman è diventato uno dei fondatori del gruppo “Iraq veterans against the war” e presto è emerso come un leader di un piccolo ma crescente movimento di soldati che si oppongono apertamente alla guerra. L’esempio dei soldati israeliani, che si rifiutano di andare a combattere nei territori occupati palestinesi, ha avuto un seguito esemplare. La lista degli avvenimenti drammatici della fase attuale sarebbe lunga, ma i fatti citati sono sufficientemente rappresentativi della situazione nel suo insieme. Che Bimbo metterò dunque nella culla del Presepe la notte di Natale? Non metterò il bambino sazio dell’Occidente: i Presepi che ho occasione di vedere ne sono zeppi! Non metterò un bambino che diverrà soldato, anche se purtroppo so che i bimbi rosei hanno spesso sotto di sé nascosta una prospettiva militaresca e guerrafondaia. Neppure deporrò nella culla un bimbo denutrito, destinato a morire per l’incuria di tanti, dediti al proprio egoismo piuttosto che al bene di tutti, secondo le cifre sopra citate. Non si può morire sotto i cinque anni ogni sei secondi senza che nessuno reagisca, insorga e si ribelli. Metterò ancora una volta il Bimbo che storicamente era là duemila anni fa, senza edulcorazione alcuna. La storia ed il simbolo si sovrappongono. Un Bambino di Galilea, di Nazareth più precisamente, figlio di madre e padre artigiani, migranti in quel momento della loro vita perché dovevano andare a rendere omaggio all’Imperatore che pretendeva il censimento di tutta la popolazione. Un Bimbo che sarebbe cresciuto nel silenzio per circa trent’anni, leggendo i testi antichi, dialogando senza timore con gli adulti che incontrava ogni giorno e con i sacerdoti del tempio che apprezzavano il suo impegno nel voler conoscere le cose del mondo ed i significati della vita; un Bimbo che dopo i trent’anni cominciò a predicare la salvezza per i poveri, gli affamati e gli assetati di giustizia, i perseguitati, che invocava il Padre, che tutto predispone al bene comune. Che per la sua causa si è donato senza risparmiare forze e si è dedicato sino alla morte senza invocare sconti e inciuci, perché la credibilità e l’efficacia del suo agire avrebbero perso di forza. Un Bambino che la gente, pertinacemente ottusa al cambiamento, additava dicendo: ma non è quello il figlio del falegname? Ma che di fatto è il modello più significativo, accanto ad altri ugualmente validi, per la trasformazione del mondo nella direzione che la parte migliore di noi vorrebbe. (Natale 2004) Mario Arnoldi |