Venti marzo 2004

Manifestiamo contro la guerra

A proposito di guerra, mi sembra doveroso innanzi tutto ricordare l’ 8 marzo, giornata simbolo della situazione delle donne di tutti i tempi e di ogni regione della terra. Riporto l’ultima parte dell’articolo di Silvia Ballestra apparso su l’Unità di quello stesso giorno. "Ma poi, la festa di chi? Vien da dire: è la festa delle vittime. Picchiate stuprate e accoltellate, pare che le donne esitino un po’ a riscoprire il sacro valore della famiglia. La cronaca è lì da leggere, famiglie sterminate dieci volte su dieci da uomini. Donne vittime, colpevoli di aver deciso di andarsene, di lasciarlo, di innamorarsi di un altro, semplicemente di non poterne più. Insomma, colpevoli di aver esercitato un libero arbitrio. Comunque non vale solo da noi. Amnesty parla chiaro: Occidente ed Oriente, Nord e Sud del mondo, civiltà antichissime e democrazie progressiste, sparate o lapidate, le donne difficilmente sfuggono alla follia degli uomini. E fortuna che si comincia a discutere seriamente delle mutilazioni sessuali!".

Non ci sono percentuali nelle parole della Ballestra, è vero! L’esternazione è in forma di sfogo. Ma, tristemente, questo corrisponde alla realtà di ogni parte del mondo, sia pure nella differenziazione delle cifre secondo le regioni. Il maschio, vittima che combatte le guerre comandate dal potere dall’inizio della storia, s’identifica con l’aggressore ed a sua volta esercita violenza sulla donna. E’ la guerra dei sessi, e, come in ogni guerra, c’è chi schiaccia e chi è schiacciato. L’ 8 marzo non è una festa istituita per sdolcinate moine, ma perché la società prenda coscienza della reale situazione delle donne, della differenza di genere, che subisce troppe forme di sfruttamento.

A proposito dell’Iraq, in una sparatoria tra polizia locale ed iracheni, avvenuta il 9 marzo scorso, un carabiniere italiano veniva ferito ad un braccio in modo non grave. Secondo alcune fonti nella stessa sparatoria ci sarebbero stati quattro morti civili. Mi torna immediatamente alla mente la strage del 12 novembre dello scorso anno, quando terroristi a bordo di due autobombe riuscivano a penetrare nella base italiana di Nassirija e si facevano esplodere, causando la morte di dodici carabinieri, cinque militari dell’esercito e due civili. I feriti erano 21. A dicembre dello scorso anno, quattro elicotteristi del reparto Antares, di stanza in Iraq, si rifiutavano di volare per "motivi di sicurezza". I piloti sono stati rimpatriati ed a febbraio scorso venivano indagati dalla procura militare. Ora rischiano l’accusa di ammutinamento. Il ministro della difesa Martino, nei giorni scorsi, ha garantito la sicurezza degli elicotteri. Per il legale dei piloti "i vertici sapevano del pericolo". Ma il pericolo è anche un altro e deriva dal fatto di essere occupanti.

Spigolature vecchie e nuove del dramma iracheno. Sono i segni di una presenza non gradita, ritenuta ostile, violatrice dei diritti all’autodeterminazione. A nulla serve la costituzione improbabile che gli organismi internazionali propongono. Meno ancora contano le votazioni che rinnovano la presenza italiana in Iraq, che ha lo scopo, più che di sicurezza, di salvaguardare piuttosto le briciole di contratti economici che se ne possono trarre.

Parla in modo chiaro e duro Gino Strada in un’intervista rilasciata ad Andrea di Robilant per La Stampa, ripresa da Paolo Mieli nelle risposte alle lettere al Corriere del 10 marzo scorso. "Non c’è il minimo dubbio che stavano meno peggio di adesso, ha dichiarato Strada. Si ritrovano con un nuovo dittatore in casa, cioè gli americani, e vivono in una situazione di insicurezza e di pericolo costanti, la gente ha paura ad uscire di casa; ma lo sa che l’azienda che sta costruendo il nostro nuovo ospedale a Garbala mi ha detto che preferisce pagare la penale piuttosto che continuare a lavorare in condizioni così insicure? Solo gli imbecilli dicono che lì finalmente ci sono ospedali, finalmente gli iracheni hanno l’acqua e l’elettricità; la verità è che lì tutti hanno paura e nessuno vede la luce alla fine del tunnel. La soluzione per Strada è il ritiro dei nostri soldati, non solo quelli italiani, ma i militari di tutte le potenze della coalizione, Usa in testa, e la loro sostituzione con una forza multinazionale sotto bandiera Onu, formata da truppe di Paesi che non abbiano partecipato al conflitto".

La conclusione che ne trae Mieli è di perplessità se non di dissenso. Invece i movimenti che manifesteranno il 20 marzo fanno propria questa posizione per una giusta soluzione della situazione gravemente conflittuale. Gino Strada è persona non sospetta di interessi sottintesi politici o economici. Le sue affermazioni nascono dall’esperienza diretta del dolore degli iracheni e di tutti coloro che hanno subito e subiscono la guerra preventiva ed i suoi effetti.

I partiti della sinistra italiani hanno compreso, una parte, la gravità della situazione ed hanno votato contro il rinnovo del finanziamento della presenza italiana in Iraq, un’altra parte, o si sono astenuti o non hanno votato, mascherandosi dietro la motivazione che, se si doveva evitare la guerra, non ci si può esimere oggi dal collaborare a portare la democrazia in quel paese martoriato e, inoltre, per il fatto che la votazione riguardava tutte le missioni italiane di pace nel mondo, tra le quali molte godono del consenso comune.

Faccio mia la posizione di Gino Strada, che rappresenta l’atteggiamento di tutti i movimenti che scenderanno in piazza il venti marzo. Auspico che la differenziazione avvenuta nella sinistra a proposito del voto non sia la premessa di una spaccatura più profonda, che gli schiaffi simbolici si trasformino in dibattito serrato per un san proseguimento del cammino verso la pace in Iraq e in tutte quelle zone del mondo dove si combatte, perché non s’è ancora compreso, se non altro, che la pace porta maggiori frutti della guerra.

(15 marzo 2004)

Mario Arnoldi