La politica perduta

II parte - La politica del futuro

Intervistatore. Dopo il ‘900, quindi, l’attuale modello di politica non funziona più, è impraticabile, sia perché la violenza di oggi non è più controllabile a causa dell’avanzato sviluppo della tecnologia che ha dato agli Stati ed ai singoli la possibilità della distruzione totale; sia perché il cuore nero del ‘900, Auschwitz ed Hiroshima, ha realizzato la capacità di distruzione totale, mettendo in evidenza la fragilità antropologica del genere umano che può distruggere se stesso, come diceva Ernesto Balducci; sia infine perché la globalizzazione, con l’unificazione dello spazio, con l’annullamento del potere delle nazioni che garantivano un ordine al loro interno ed esportavano il male all’esterno con il conflitto verso i nemici, non riesce più a creare ordine all’esterno con la forza, perché questa si riversa immediatamente all’interno. Gli Stati Uniti hanno tentato di bloccare il terrorismo con la guerra, ma si sono ritrovati in casa la guerra sotto forma di insicurezza crescente, di minacce terroristiche sempre maggiori. Questa forma di politica, invece di ridurre la violenza, la aumenta, creando disordine all’esterno ed all’interno, cioè in ogni dove.

Domanda. Quali sono dunque le forme della politica nuova?

Riferirò in forma diretta, data la fedeltà al discorso di Revelli, assumendomi allo stesso tempo la responsabilità di quanto dico e rimandando alla lettura del libro ci cui si sta parlando: M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, 2003.

Marco Revelli. E’ necessario creare un altro paradigma della politica. Si potrebbe uscire dalla politica della modernità assumendo l’esempio della teologia del ‘900. Parlo ancora per metafora, essendo la politica un livello di vita concreto e non teologia secolarizzata. La teologia contemporanea, quella più sensibile agli avvenimenti storici, in campo ebraico come in quello cristiano, sia protestante che cattolico, ha fatto tesoro delle situazioni del ‘900 più che la politica. Hans Jonas, ne Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 1987, come altri credenti, di fronte alla tragedia dell’olocausto, si sono posti l’interrogativo su come Dio avesse potuto permettere tanta distruttività, tanto male. E’ l’equivalente del lamento di Giobbe del quale abbiamo parlato la volta scorsa. La teologia, quella più attenta alla storia, ne è uscita accettando una sorta d’indebolimento dell’idea di Dio, non potendo più tenere insieme l’infinita onnipotenza e l’infinita bontà di Dio, ed ha rinunciato all’idea di onnipotenza. Ne emerge l’idea di un Dio sofferente. Non un Dio che continua ad abitare nell’alto dei cieli e governa la terra come un Signore degli eserciti, ma piuttosto che soffre per le ferite che le persone umane gli procurano, compartecipe della responsabilità del mondo insieme all’umanità. Un Dio molto "abbassato". Anche le ultime interpretazioni del libro di Giobbe vanno in questa direzione.

Ed ecco la metafora del nostro rapporto col male del mondo. La politica come luogo dell’onnipotenza non può più essere riconosciuta. Se vogliamo salvare la politica dal buco nero nel quale è caduta, dobbiamo immaginarla e praticarla in forma molto più umana e non più verticale. Una politica che non viva supra, come dice Hannah Arendt, ma che viva intra, tra le persone. Una politica che non usi il monopolio distruttivo per produrre l’ordine dall’alto, ma che ricucia le relazioni tra gli uomini dal basso e riproduca quei legami tra le persone che la modernità ha spezzato.

La politica dei moderni, come già sottolineato più volte, non è più in grado di gestire la spirale della violenza. Un esempio vicino a noi è il destino del protocollo di Kyoto, un leggero tentativo di controllare questa deriva.

Ognuno di noi è chiamato a modificare il proprio stile di vita, ma nessuno è in grado di trasformare la situazione sin quando tutti gli altri non modificano il loro. La politica dovrebbe essere quella che ci rende capaci di cambiare tutti insieme il nostro modo di vivere, di creare relazioni paritarie e non rapporti comando-obbedienza, quali erano quelli della politica della modernità.

Oggi ci sono più persone, una quantità molto più estesa di attori, che hanno cominciato a muoversi in questa direzione. Sono invisibili, o molto meno visibili di quanto non lo siano le truppe di occupazione in generale ed i governanti attuali. Sono centinaia di migliaia che lavorano nel sociale per riannodare questi vincoli. Non sono ancora capaci di fare racconto di sé, però sono quelli che, se riuscissero a prendere la parola collettivamente, forse potrebbero aiutarci ad uscire coi nostri passi da quel paradigma della politica in crisi e ad incominciare a costruire quella che nel libro si chiama la politica del futuro. Non nascerà come Minerva dalla testa di Giove da un giorno all’altro, sarà un percorso di lunga durata. La questione dei tempi ci dovrebbe vedere impegnati. L’idea dell’istantaneità e dell’urgenza è tipico del dominio della tecnica, della politica dei moderni.

Le vere trasformazioni, quelle antropologiche, che riguardano la pianta uomo, richiedono decenni. Dobbiamo muoverci su una temporalità di questo tipo, non dimenticando le urgenze del momento. Cercando di stabilire con le parti migliori della vecchia politica in crisi un rapporto di contrasto, controllo, negoziazione. Evidentemente, tra Bush che dichiara la guerra totale e permanente e la Francia e Germania che vi si oppongono, il primo non può essere un interlocutore, i secondi sì. Stabilendo anche "compromessi" in modo da guadagnare tempo, rallentare determinati processi, impedire precipitazioni distruttive. Se mi si chiede dove sta la politica del futuro, rispondo fuori dai governi, dentro il popolo delle formiche che in qualche modo sta preparando un terreno serio d’innovazioni, se non ci saranno precipitazioni nel frattempo, se la guerra infinita non avrà cancellato la possibilità di parola e di risposta, i se sono tanti, non è il caso di essere ottimisti, si può coltivare senz’altro una linea di speranza basata su fatti concreti quali quelli citati.

Il dibattito che è seguito alla relazione di Marco Revelli ha affrontato temi fondamentali come quello della non violenza, quindi riprenderò e concluderò l’argomento in una terza puntata. (2.continua)

(15 gennaio 2004)

Mario Arnoldi