Quale futuro?
Ho scelto un’immagine di morte tra le tante che ci hanno "bombardato" nei giorni scorsi sulla guerra e sulla presa di Baghdad, di Bassora ed infine di Tikrit. Una foto tra le tante, allo stesso tempo portatrice di una tragicità particolare, si tratta infatti di uno dei tre giornalisti uccisi quel giorno, cioè di una figura che svolgeva un lavoro che secondo le leggi internazionali è protetto, un’attività non qualsiasi ma di informazione diretta di quanto stava accadendo. Forse è proprio la realtà cruda della guerra, con i suoi testimoni, che voleva essere cancellata. Da parte anglo americana ci sono state tante lamentele per il fatto che i mass media hanno insistito troppo sulle tragiche scene di morti, di regolamenti di conti, di saccheggi, di conflitti tribali, etnici e religiosi. "Fa male al principe, al cardinale, al re, diceva un antico canto di Jannacci e Fo, che i sudditi piangano, infatti questi dovrebbero portare allegria a chi li domina". Ma non può esserci allegria in questa vittoria. Le pagine di storia, fossero anche pochissime, che abbiamo sfogliato dagli anni della prime classi scolastiche, ci informano su cosa succede ad un impero, regime o potere, che crolla violentemente senza un adeguato supporto della comunità internazionale. Basti pensare a cosa avvenne ed avviene ai paesi dell’ex URSS, della Iugoslavia, dell’Afghanistan, per citare gli ultimi casi. Neppure gli aiuti umanitari riescono a raggiungere oggi la popolazione irachena per i conflitti interni gravissimi, risvegliati dalla caduta del potere forte. Quale futuro per l’Iraq, per il Medio Oriente, per l’Asia occidentale? Una domanda che ci poniamo insieme con chi guarda in prospettiva. Quale futuro per questa mitica e reale terra contesa sin dall’antichità per la ricchezza delle sue fonti energetiche, petrolio, acqua e quant’altro serve alla vita futura dell’umanità? La risposta, prevista dall’89, viene proclamata dall’11 settembre 2001. Bush dice: "La Siria protegge gli uomini di Saddam ed ha armi chimiche". "La Siria cooperi o sarà il nostro prossimo obiettivo". Riappare la guerra infinita che si dipana come il filo di una matassa tragica di fronte ai nostri occhi. Eccolo il futuro della politica imperiale USA: prima Bin Laden e l’Afghanistan, poi l’Iraq e Saddam ed ora la Siria e poi la serie degli "stati canaglia". Poco importa che i capi dei paesi aggrediti vengano stanati, trovati, uccisi. Ciò che interessa è la distruzione delle strutture ed infrastrutture degli stati che si contrappongono al progetto globale USA. Del petrolio si è detto molto, dell’acqua meno o quasi nulla. Fra 20 o 30 anni il mondo morirà di sete, oltre che di fame, se non si provvederà ad una nuova e pacifica distribuzione della ricchezza. L’appropriazione violenta risolve solo il problema di pochi. L’incubo dell’avvento del secolo asiatico e la mediazione europea. In un’intervista rilasciata a Ida Dominijanni, Mario Tronti, lucido ed intramontabile maestro, afferma che nell’attuale guerra ha vinto indubbiamente il più forte. Non c’è più Davide, ma solo Golia. Ma accanto alla forza, negli Stati Uniti, egli afferma, c’è anche una debolezza, un incubo, l’avvento del secolo asiatico dopo il secolo americano, prospettiva che l’Europa accetterebbe con fatalità secondo gli USA. C’è nell’amministrazione statunitense il timore di una catastrofe imminente e la volontà di mettere dei valli ai confini del continente asiatico. Ecco perché è temuta di più la Siria che non la Corea del Nord che ha l’atomica. La domanda d’obbligo è "che fare dell’occidente". La risposta è di grande interesse. Dice ancora Tronti. "C’è da decifrare la frattura fra Stati Uniti ed Europa provocata dalla guerra. L’Europa della Francia, della Germania e della Russia evidentemente. Una frattura che non si comporrà facilmente, infatti questi paesi europei non potranno subire passivamente la vittoria americana. A differenza della sventura che ci vedono tutti, io in questa frattura vedo un’occasione politica carica di potenzialità. A questo punto l’Europa, con le sue due porte aperte sull’est e sull’ovest, deve proporsi come ponte fra Oriente ed Occidente e contribuire così a delineare per l’Occidente un destino non imperiale. E’ questo l’unico modo per riaprire e rilanciare i rapporti con gli Stati Uniti, indicando la strada di un’altra risposta non aggressiva ma di crescita e di trasformazione al declino americano ed allo sviluppo del mondo". (il manifesto, 11 aprile 2003) L’Europa deve quindi diventare un ponte, deve emergere come un campo culturale aperto all’Oriente, come differenza culturale dal cuore nero dell’America e deve quindi avere anche la forza di una potenza di contrasto dell’unilateralismo americano. Il movimento globale no-war, che sabato 12 scorso ha avuto nuovamente momenti di grande visibilità in diverse capitali d’Europa e del mondo, potrà svolgere un ruolo di sensibilizzazione della base sociale e quindi contribuire alla riuscita dell’intermediazione europea, che potrà essere svolta solo dalla politica se rafforzerà il suo potere d’azione. Una prospettiva interessante che va approfondita e seguiremo con attenzione nella sua possibilità di conversione dalla soluzione violenta dei conflitti mondiali a quella concordata. (15 aprile 2003) Mario Arnoldi |