"Fiat" voluntas vestra?
Quegli uomini e donne chiamati esuberi
La crisi della Fiat è nota, agli analisti attenti, da parecchio tempo ed in questi giorni ne osserviamo solo le ultime conseguenze. I numeri sono indicativi. Mirafiori, dipendenti 9900, tagli 2700, Comau e Marelli 650; Arese, dipendenti 1150, tagli 1000; Cassino, dipendenti 5500, tagli 1200; Pomigliano d’Arco (Na), dipendenti 5000, tagli 40; Termini Imerese (Pa), dipendenti 1900, tagli 1900; ecc. Inoltre le ricadute sull’indotto sono forti. I tagli sembrano essere destinati ad aumentare. Dietro i numeri ci sono persone umane sacrificate all’idolo della produzione neoliberista. Uomini che rivendicano il diritto al lavoro, donne che gridano il loro dramma per i figli, che non potranno più studiare e lavorare, e per il cibo, che scarseggerà ulteriormente. Torino, la città Fiat per eccellenza, ha visto proteste e manifestazioni d’ogni genere; all’Alfa di Arese si sono svolti cortei e blocchi stradali, "non ci lasceremo cancellare" hanno detto a gran voce; Cassino non si rassegna, tutta la città è scesa in piazza; A Termini Imerese gli operai si sono incatenati ai cancelli. Mi hanno colpito particolarmente le donne di Termini Imerese che urlavano che non si sarebbero lasciate sopraffare ed avrebbero lottato in prima linea: "Non ci lasceremo colpire, i Vespri siciliani sono cominciati dalle donne! Con i licenziamenti lasceremo spazio alla mafia, alla quale dovremo ricorrere per trovare lavoro". E’ singolare la sapienza delle donne nel ricordare i Vespri siciliani: un’insurrezione popolare contro la dominazione angioina scoppiata a Palermo all’ora del vespro del 30 marzo 1282. Le donne sanno dare, nei momenti più dolorosi della storia, lucidità d’analisi, fatte di poche ma efficaci parole, e lotte generose che vanno ad integrarsi con quelle degli uomini. Gli esempi del passato recente sono molti, si pensi solo alla Resistenza. Per capire meglio la crisi, farò un’esemplificazione dell’immediato dopoguerra e qualche riflessione sulle cause attuali. In un articolo su La Repubblica del 10 ottobre Giorgio Bocca titola "Quando per i torinesi era la mamma padrona" e, nello scritto, muovendosi tra storia ed encomio, ricorda i tempi della Liberazione, quando i partigiani in parte erano in casa Agnelli per occupare ma soprattutto per tutelare il lavoro ed in parte risiedevano al Municipio per gestire la transizione, e dice: "Sulla Fiat operai e padroni su un punto erano d’accordo, ‘Salvaguardare la compagine lavorativa’, salvaguardare la concentrazione di cervelli e di tecniche, la cultura del lavoro. Togliatti di ritorno da Mosca aveva dato agli operai torinesi la parola d’ordine di lavorare, di ricostruire". Venendo alla crisi attuale, le interpretazioni sono molte. Tralascio le opinioni dei prezzolati cantori della priorità assoluta del progresso sulla persona umana. Degli altri, alcuni affermano che la politica monopolistica operata dall’azienda nel passato recente, che inglobava Alfa Romeo e Lancia, che avevano vetture di fascia alta e competitiva, e le uniformava verso il basso, con la scarsità di ricerca e d’investimenti secondo la tradizionale produzione italiana di massa, non ha retto il confronto con gli altri paesi, come la Francia e la Germania, che invece mettono sul mercato prodotti apprezzabili ed appetibili. Altri, con sguardo più ampio, pongono l’accento sulla crisi di sovrapproduzione che investe gran parte del mondo a causa della saturazione del mercato. I paesi del sud del mondo, con la loro povertà indotta, non possono certo sostituire i consumatori del nord. Altri rilevano quanto sia infelice la globalizzazione della Fiat verso Argentina, Brasile, Polonia, Turchia, India e in prospettiva Cina, paesi che non hanno reso quanto si sperava sia per le crisi laggiù dilaganti, sia per la produzione mediocre endemica dell’azienda. Altri ancora denunciano "il processo di dispersione del capitale Fiat in tutti i rami dell’economia italiana e globale, dal turismo all’agricoltura, dall’alimentare all’energia alle telecomunicazioni, ovunque ci fosse un business cui fare affluire profitti industriali e finanziamenti pubblici" (Marco Revelli, il manifesto 15 ottobre). L’estromissione dal lavoro è una conseguenza inevitabile. Gli ammortizzatori sociali in Italia non sono all’altezza. Il governo italiano, dopo aver negato ogni aiuto, oggi afferma di voler intervenire in qualche modo, compatibilmente con le prescrizioni europee. I sindacati, tranne la CGIL, ed i partiti di sinistra oscillano tra opposizione vuota di alternative e collusione. La proposta di nazionalizzazione dell’azienda appare impossibile per la già citata mancanza di mezzi. La prospettiva di essere inglobati dalla General Motors sembra inevitabile. Le lotte operaie dunque non hanno senso? Lo hanno invece! Per salvaguardare il diritto al lavoro, per porre un freno alla cattiva produzione monopolistica, per rivedere la globalizzazione povera, per tutelare gli stipendi dall’inflazione, per rinnovare i contratti di lavoro che assicurino cibo, sanità, istruzione alle persone ed alle famiglie. Le lotte operaie sono una linea forte, accanto a quella dei movimenti di base, per una trasformazione che tende ad un mondo diverso e più giusto. Revelli, nell’articolo citato, prospetta "un’ipotesi di ‘liberazione’ (che sia ‘salvataggio’, ma non solo) del lavoro congelato in Fiat: un qualche percorso capace di traghettare i lavoratori al di fuori, oltre la condizione, appunto, di dipendente, e immaginare la trasformazione in ‘liberi cooperatori indipendenti’ ". Un’ipotesi praticabile, penso, attraverso inevitabili tappe intermedie. Lo sciopero del 18 possa rivedere uniti tutti i sindacati, com’è avvenuto venerdì 4 scorso, ed i movimenti della società civile per un’azione più incisiva contro il potere che a poco a poco ci trasforma tutti in "esuberi", che non fa rima purtroppo con "tuberi", ma con ogni parola che indica estromissione dal lavoro delle persone umane. (15 ottobre 2002) Mario Arnoldi |