Moni Ovadia
L’ebraismo come cammino di libertà per ebrei e non ebrei
Quando ho visto lo spettacolo di Moni Ovadia, Oylem Goylem, e poi gli altri che si rifacevano a quello e introducevano storie, musiche, balli nuovi, ho vissuto emozioni intense, provate solo alle rappresentazioni di commedie e drammi di grandi autori e dei classici stessi. Percepivo innanzi tutto un’integrazione di forme teatrali diverse e soprattutto una dissacrazione nel modo di concepire la religione ebraica e le religioni in generale. "Scherza coi fanti e lascia stare i santi" dice un vecchio proverbio popolare. Ed invece Ovadia sa scherzare sui santi, e su Dio stesso, in modo non distruttivo, ma con atteggiamento positivo che evidenzia quanto c’è di fasullo dietro le formalità della religione ebraica e delle altre religioni. Fatte le debite distinzioni, la mia reazione agli spettacoli di Moni Ovadia è simile a quella che provai di fronte a Mistero Buffo di Dario Fo degli anni ’70, che accompagnò la parabola politico progressista di allora e conserva tutta la sua attualità. Ovadia riunisce molteplici personalità: storico, linguista, cabarettista, saltimbanco, poeta, compositore, cantante, cantore, ricercatore di nuove forme di comunicazione. Il collante è la satira, spesso in forma di barzelletta, che conduce alla risata. Per ottenere questa condizione, attinge dalla tradizione dell’umorismo ebraico, dalla lingua e dalla cultura yddish, di origine bulgara, alla quale appartiene. Si può fare umorismo su tutto, anche sull’olocausto, meglio sulla Shoah, in quanto l’umorismo è alla base di tutta la cultura ebraica. E’ spontaneo un parallelismo, che Moni Ovadia stesso ha fatto, con La vita è bella di Roberto Benigni. Nel sottotitolo indico un aspetto importante presente nel teatro di Ovadia: l’ebraismo come cammino di libertà per ebrei e non ebrei. Riferirò, come spiegazione di quest’espressione, un aneddoto raccontato dal Ovadia stesso e pubblicato nell’ultimo libro Vai a te stesso, (Einaudi, 2002). "Rav Zushi, maestro del khassidismo, era ossessionato dall’idea del momento in cui si sarebbe trovato di fronte al Giudice Supremo: riteneva di non fare abbastanza, di non essere all’altezza dei suoi compiti. Temeva che quando si fosse presentato al giudizio finale il Giudice Supremo gli avrebbe mosso dei severi rimproveri. Se lo rappresentava seduto su un trono di gloria circondato dai giusti e dai santi avvolto in una luce folgorante e sentiva la sua voce possente pronunciare i capi d’accusa: ‘Rav Zushi, perché non sei stato come Abramo! Perché non sei stato come Mosé, perché non sei stato come Giacobbe! Zushi, potevi almeno essere come re Davide! Ti potevi sforzare di essere almeno come re Salomone!’ Ma quando Zushi si trovò di fronte al Giudice Supremo, lo scenario era totalmente diverso da quello che si era rappresentato nei suoi tormenti. Il Giudice Supremo lo attendeva in uno shtibl , uno di quei piccoli oratori dello shtetl con le pareti di legno e aveva un aspetto dimesso e bonario. Vedendo Zushi gli rivolse un caldo sorriso e lo salutò: ‘Rav Zushi, figliolo, eccoti qua, benvenuto!’ Poi, prima di dare avvio al giudizio, scosse malinconicamente il capo facendo fluttuare la folta e lunghissima barba e con voce pacata soggiunse: ‘Rav Zushi, Rav Zushi, ma perché non sei stato Rav Zushi!’. Noi siamo chiamati a essere il meglio di noi stessi e a operare esclusivamente nel nostro tempo. Il tempo di Zushi non era il tempo di Mosé, era il tempo di Zushi". Una cascata di riflessioni esistenziali, storiche, sociali, politiche, religiose, di fede mi si accavallano alla mente, ma sarei scorretto coi lettori se commentassi un testo così chiaro nelle sue implicanze. Ricordo un’affermazione, che associo all’aneddoto di Moni Ovadia, di un autore a me caro, mancato diec’anni fa, Ernesto Balducci, noto senz’altro al pubblico attento. Questi diceva: "Se trascuriamo la pianta Uomo (oggi diremmo la ‘Persona umana’), tutto ciò che diciamo e facciamo è come una palafitta eretta sull’acqua con paletti gracilissmi, che cadranno al primo movimento". E’ come "una casa eretta sulla sabbia" diremmo nel nostro "yddish"! Più spregiudicatamente, alla domanda postagli in una recente intervista da Michele Mancino: "Ovadià significa ‘Servo di Dio’, qual è il suo rapporto con Dio?", Moni Ovadia risponde: "Nei prossimi mesi porterò in scena uno spettacolo nuovo, reciterò un testo integrale che si chiama Yossl Rakòver. Un vero testamento di un partigiano del Ghetto di Varsavia che, sapendo di morire, si rivolge a Dio con queste parole ‘il mio rapporto con te non è più quello di un servo con il padrone, io ti amo, ma più di te amo la torah’. Levinas dice che se noi vogliamo trovare Dio, dobbiamo passare dalla stazione dell’ateismo. Il vero problema non è Dio, è che l’uomo creda nell’uomo. Dio è dove lo lasci entrare, è accoglienza, è un percorso, un progetto etico". Questo messaggio di umanità ampia e radicata, spesso trascurato da chi nomina troppe volte il nome di Dio invano, è una delle eredità più preziose del teatro di Ovadia. (1 agosto 2002) Mario Arnoldi |