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Scorrazzando nei paraggi di un libro

da femminista.... sfegatata

Lino Tonti, I cinque figli del vescovo, il segno dei Gabrielli, S.Pietro in Cariano 1999

Un romanzo-lettera, nel quale viene usato il trucco letterario di dire la verità attraverso immagini e sentimenti che possano velarla con discrezione, rispetto e sostanziale amore per l’interlocutore. Forse l’Autore, proponendosi di condannare l’apparato ideologico che soffoca il "senso" della Chiesa, con la finzione narrativa vuole evitare lo stile accusatorio, il quale potrebbe denotare una sorta di ideologia alla rovescia. E in verità le argomentazioni sono rigorosamente contenute, sì da lasciare agilità allo stile e spazio alla fantasia con l’indugio in simpatici dati di biografia familiare e in attenti scorci sul vissuto, nonché col riferimento a luoghi suggestivi, carichi di storia.

Chiara è la protagonista, alla ricerca di uno sbocco al dilemma che si scatena nel suo animo quando imbatte davanti all’epigrafe di un sepolcro del IV secolo d.C., dove cinque figli commemorano il loro padre, il vescovo Lucio Petronio Destro. Ventinovenne figlia di un prete sposato, la quale non sarebbe dovuta venire al mondo (come grida sommessamente), trova il coraggio di scrivere, nientepocodimeno, al Papa in persona, perché venga spiegato, discusso, o almeno semplicemente detto il paradosso che il peccato e l’obbrobrio di oggi fosse la normalità di ieri. Come mai questa verità a due facce, di cui l’una contrasta del tutto con l’altra? Come può scaturire dal cuore di Dio una legge impietosa su un fatto umanissimo - il matrimonio - che renderebbe colpevole e da condannare a vita chi la infrange?

Per dire ciò, la mediazione di Chiara risulta poco attendibile, anche se dietro tale nome si nasconde la donna reale, Lorella, la quale alla fine del libro si rivolge all’Autore, ringraziandolo di averle permesso di seguire il suo viaggio verso il dialogo con il Padre grande. Ma l’unica sua vera parola e cioè l’invito a sperare, rivolto a tutte le donne che non hanno voce per esprimersi, non ne fa una pioniera in tale direzione: perché il viaggio descritto è soprattutto il viaggio del prete sposato, tanto il dramma di lui, pur vissuto nella consapevolezza serena di chi sa di avere ascoltato la voce dello Spirito, è corredato di consapevolezza teologica e di convinzioni e di analisi appropriate nella citazione di documenti ecclesiali. Ma soprattutto fa da spia del sentire del padre, anziché della figlia, proprio il modo in cui Chiara tratteggia la figura di lui.

Sia che lei percepisca in tal modo il padre, sia che lo stesso le trasfonda la propria percezione di sé, ci troviamo di fronte ad una idea di prete che la donna ha assimilato e che dovrebbe mettere in discussione.
Ecco qualche stralcio che lo descrive: "Comunica con gente di ogni età, parla in dialetto con gli anziani, sa scherzare coi giovani, si esprime a sguardi e gesti coi piccolissimi". "Il mio babbo! Alcune volte lo sento mio, in comunione armoniosa con me. Altre, percepisco in lui una ricchezza che quasi mai mi spaventa, un mistero insondabile, una forza che non trovo in nessuno". Nell’ammirazione della figlia vediamo l’immagine scolpita nel "profondo" dei soggetti-preti (l’Autore non fa un vanto personale del suo essere-eccezionale, tanto che anche altri suoi pari, i quali compaiono indirettamente qua e là, sembrano ritagliati sullo stesso schema). In realtà è confermato il teorema papale: "c’è in lui [cioè nel prete] una sola grande attesa: egli ha sete di Cristo. Il resto lo puoi chiedere a tanti altri".

Ebbene, caro amico, non basta che tu ti ribelli all’ingessamento del prete, alla sovrapposizione della parola alla Parola. Eora di rendere davvero laico, e cioè dono comunicato a tutti, il mistero di Cristo. Il mondo ha bisogno del divino. La sete di Dio è autentica esigenza di completezza dell’umano che nessuno può darsi, ma di cui nemmeno la genialità mistica può appropriarsi come privilegio. Certamente non possiamo nemmeno appiattire tutti i carismi, negandone uno specifico al prete. Ma la diversità deve lasciare intatta l’uguaglianza: perché l’inesauribile Fonte a cui attingiamo noi tutti/e è unica, e poco conta se la grazia scorra su terreni variamente configurati.

Ma, ahimé, anche se il prete è sposato, anche se dichiara, come l’A., di non volere tornare a farlo, il simbolismo sacrale che ha alimentato la fresca immaginazione del seminarista, si è insediato nel suo campo visivo spirituale e la fa da padrone. Quando tu indugi a descrivere: "Chi s’appresta a ricevere la sacra Ordinazione, si prostra con tutto il corpo e poggia la fronte sul pavimento del tempio", ti preoccupi di precisare che questo annullamento simbolico vuol significare il mistero della mediazione tra cielo e terra. Ti limiti a sottolineare che lo stesso rito è riservato ai sacerdoti della Chiesa cattolica orientale i quali si sposano; sottintendendo che in sostanza niente è perduto, in chi non esercita più il ministero, di quell’universo simbolico, forse ancor più valorizzato nella nuova situazione. Perciò mi colpisce, ma mi fa pensare, l’episodio in cui Chiara ti scopre, attonita, in ginocchio di fronte alla sua mamma, tua moglie, mentre lei dorme... Davvero mi commuove la trasposizione della spiritualità celibataria in quella matrimoniale. Sosto rispettosa di fronte a tanto candore. Ma le perplessità si addensano appena riesco ad andare oltre tale incanto.

Dunque, anche da sposati, continuate a sentirvi sospesi tra cielo e terra? Quale novità ha apportato la diversità reale della donna nella vostra vita, se siete tuttora avvinti alla "diversità ontologica", e cioè alla diversità sacralizzata?

Il sacro! Non basta fargli cambiare indirizzo.

Lo so, il discorso è lungo e difficile. Né qui mi voglio cimentare ad affrontarlo.

Nel percorso di Chiara, fa da battistrada la solita figura maschile, che conserva una sua diversità come segreto nello stesso donarsi - in tutta amabilità - agli altri.

Quale segreto?

Quello per cui resta investito del peso di farsi ponte del divino. La donna, contemplata nella moglie, colma di ammirazione nella figlia, in forma passiva o attiva, è sempre lo schermo nel quale egli ritrova se stesso. Gli sfugge la reale-concreta-piccolezza-limitata dell’altra, che stravolgerebbe la visione ideale di sé-prete e della donna sublimata (degna di starle a fianco?). E’ un peso che noi donne vorremmo alleviargli. Non per sottrarlo al passato e tuffarlo nel "mondo" (come purtroppo capita), ma per ricondurlo alla dimensione di essere limitato, parziale, davvero come tutti gli altri. Il di più, direi rovesciando la frase del papa, possiamo chiederlo a tutti; basta lavorarsi e lasciarsi lavorare da Dio.

Ebbene. Fino a quando non vedrò ridimensionate sia l’immagine del prete sia l’immagine della donna ,stagliate in un orizzonte di perfezione ideale, non cesserò di dissociarmi dal residuo modo di pensare clericale che si annida ancora nell’animo del prete divenuto marito e padre, e che perciò la gente, assetata di sacro, fa fatica ad associare al suo nuovo status.

Eppure io lotto e imploro alleanze perché sia restituita ai preti sposati la dignità offesa: si nega loro la possibilità di essere se stessi, e li si emargina in tanti modi meschini. Perché sia riconosciuto loro il coraggio di avere sfidato punizioni e intimidazioni per seguire la propria coscienza, e di affrontare l’altra sfida: la volontà dell’ufficialità gerarchica di cancellare la loro precedente esperienza, in quanto marchiata da tradimento, contro la verità della fedeltà (nutrita dai più) all’essenza della chiamata, identificata in m aniera anti.evangelica con la scelta celibataria.

Proprio per questo la vostra causa è anche la causa delle donne. Sono loro il grande ostacolo!

E allora uniamo le nostre forze alle vostre per dire la verità. Le donne debbono poter esprimere autonomamente la inaccettazione di un modello di prete e di servizio presbiterale in cui figurano da sfondo ideale alla sacra potestas. Purtroppo esse preferiscono tacere e talvolta invitarvi alla rimozione per evitarvi l’angoscia di un ricordo che si affloscia su se stesso, in quanto senza sbocco.

Proprio per questo ti sono estremamente grata, caro Lino, del tuo pacato sfogo dell’anima, che vorrei invadesse l’intero globo. Tu hai forza d’animo capace di smascherare l’ennesima prova di ipocrisia e di ambiguità di cui si fa scudo l’ufficialità della Chiesa (e di cui la gente, compresa quella di cultura, si fa stanco moltiplicatore) con la frase: "il problema dei preti sposati non c’è".

Caspita, che c’è.


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