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Carlo Maria Martini – Umberto Eco, Cosa crede chi non crede?, Mondadori, Milano 1999 (su licenza Liberal libri, Firenze)

Si tratta di un carteggio (artificiale) tra il cardinale e Umberto Eco, corredato da un "coro" finale formato dalle voci di Emanuele Severino, Manlio Sgalambro, Eugenio Scalfari, Indro Montanelli, Vittorio Foa, Claudio Martelli. Sono arrivato con fatica in fondo a questa lettura, facendomi qualche violenza. Diffido istintivamente di questo genere di speculazioni, probabilmente perché le capisco poco. Ogni autore usa le parole dando ad esse un senso diverso, il che è certamente una ricchezza, ma suppone una conoscenza dei diversi autori che io non ho. Martini stesso, del resto, ha fatto presente che questi discorsi sono impenetrabili per la maggior parte della gente, al che Eco ha risposto che la gente deve abituarsi ai discorsi difficili. Sono d’accordo anche su questo, ma non si possono fare troppe cose in una volta. Se devo essere molto sincero, dirò anche che mi dispiace un po’ che il vescovo di Milano ci abbia dedicato tante energie. Voglio immaginare a sua "discolpa" (!) che gli abbiano pagato un bel po’ di diritti, grazie ai quali si sia potuto permettere un consistente atto di liberalità (non è il titolo della rivista che ha preso questa iniziativa editoriale?) nei confronti di qualche realtà davvero bisognosa d’aiuto.

In effetti queste conversazioni mi mettono a disagio perché puzzano di salotto e mi sembra che siano destinate ad essere arse in un lampo dalla gran fiammata della parabola del buon samaritano e segnatamente dal breve dialogo che la introduce e la conclude. Uno smaliziato dottore della legge rivolge a Gesù una domanda di raffinata qualità speculativa sperando in un elegante e gratificante dibattito in punta di fioretto tra intellettuali d’alto bordo, ma riceve di rimando un fatto di cronaca nera e una risposta sbrigativa, quasi sgarbata: "Va’ e fa’..."

A costo di sembrare sgarbato, dunque, vorrei sapere quanto si stanno spendendo (a parte Martini, su cui sono informato) questi rispettabili intellettuali per smontare dalle loro cavalcature e interrompere il loro viaggio per prendersi cura del mondo ferito e agonizzante, pagando di persona. Quanto stanno spendendosi contro lo strozzinaggio internazionale, le pulizie etniche pilotate, le fabbriche d’armi e la rapina della natura brevettata, per l’accoglienza della diversità, per un’informazione libera; in sostanza quanto stanno lavorando per capovolgere le logiche dell’arricchimento senza progresso grazie alle quali il 20 per cento dell’umanità (noi) mangia l’80 per cento delle risorse del pianeta. Un libro come questo mi fa immediatamente pensare alle diatribe sul sesso degli angeli che assorbiva talmente i teologi bizantini da impedire loro di accorgersi che Bisanzio stava andando a fuoco. Ci sono circostanze in cui si deve chiedere anche ai filosofi e agli scrittori di impugnare secchio e badile e andare a scavare tra le macerie. Nei primi anni Quaranta facevo le elementari e mi aveva molto impressionato veder entrare in aula il maestro della quarta vestito da soldato. Quel signore in spolverino nero perennemente imbiancato di gesso, che eravamo abituati a salutare con rispetto in corridoio, nel suo sorprendente grigioverde veniva a salutare noi e la signora maestra prima di partire per il fronte. Questo fu il primo nostro incontro con la guerra, strana cosa di cui fino a quel momento avevamo sentito parlare senza capire. Ebbene, vorrei vedere tutti questi intellettuali smettere i panni della rispettabilità accademica, indossare una tuta e partire per il fronte della pace inteso come progetto d’intervento globale per creare condizioni di giustizia internazionale, sconquassando il dolce tepore delle biblioteche e il silenzio ovattato degli studi televisivi (spero sia chiaro che sto parlando per metafore e non di reali partenze per problematiche missioni arcobaleno...). Sinceramente, non me ne importa niente se si dichiarano atei o credenti, o che cosa intendono per fede e per ateismo, o come definiscono la sostanza e gli accidenti...ciò che conta è se sono bravi a picconare e spinger carriole, per demolire lo sfruttamento internazionale e costruire da subito una cultura della liberazione e della dignità. Io credo sempre che anche l’asina di Balaam può profetizzare, benché non si destreggi molto bene tra i sillogismi. Tant’è che il protagonista della parabola sopra citata è un samaritano, cioè un meticcio miscredente e scomunicato, ed è stato scelto come esempio per spiegare a un dottore della legge non chi sia il prossimo, ma che cosa occorre fare per creare la prossimità.

Ciò detto, non voglio negare che si trovino in questo libro spunti di riflessione e provocazioni feconde. E anche la memoria personale mette la voglia di andare a cercare le radici del dire nelle biografie dei protagonisti di questo carteggio. E poiché ne è attore comprimario, non posso non collegare il discorso di Umberto Eco (lui stesso non se ne sottrae, riferendosi – p. 69 – alla sua educazione cattolica) al trauma da lui patito come dirigente GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) nel 1953, l’anno del grande cataclisma che provocò il crollo verticale dell’organizzazione: l’esonero da parte del Santo Ufficio del presidente Mario Rossi, seguito dall’espulsione dei dirigenti centrali e periferici con lui solidali, o dalle loro spontanee e polemiche dimissioni. Eco, insieme con Gianni Vattimo, era uno di questi, come afferma Mario Arnoldi nel recente volume Trent’anni dopo (Alessandria 1999). Arnoldi parla come testimone oculare di una tempestosa nottata durante un camposcuola-studenti al Falzarego, al termine della quale Eco e Vattimo presero le loro cose e se ne andarono (pp. 86/87). L’ombra del cardinale Ottaviani, famoso prefetto del Santo Ufficio nei "giorni dell’onnipotenza" di Pio XII (è il titolo del libro autobiografico, ormai introvabile, che Mario Rossi dedicò a questi eventi), è ancora lì e si raccoglie nel discorso di Eco la vivacità del non sopito fascino di una militanza giovanile che legava il messaggio cristiano (mediato da Maritain e Mounier, e da Mazzolari, Dossetti, Lazzati, La Pira e Carretto), alla solidarietà con un mondo che, uscito dall’orrore della seconda guerra mondiale, cercava una nuova logica di sviluppo. Eco se ne andò, ferito nell’intimo come tutti gli altri, guadò il fossato e si organizzò sull’altra riva tra i "lontani" (lontani soprattutto da Gedda e dai suoi Comitati Civici) guardando il villaggio natale con dispetto e cercando di convincersi che quelli rimasti "di là" avevano il diritto di restarci ma soprattutto il dovere di adeguarsi lealmente allo "statu quo". Non è una posizione isolata, anzi è tipica del periodo. Molti cattolici "reazionari" sono particolarmente irritati nei confronti di quelli "progressisti" soprattutto perché li considerano dei bari. Quelli hanno rinunciato, magari a malincuore, a idee e rivendicazioni proprie di questi per una sorta di adeguamento alla disciplina mentale imposta da un sentimento di lealtà verso l’istituzione e a distanza di anni constatano con disappunto come la ventata del Concilio Vaticano II abbia rimescolato le carte e reso possibile rimanere "dentro" a quella chiesa senza rinunciare a nulla di quello che essi hanno "dovuto" abbandonare. Così molti "laici" che hanno "pagato" il proprio affrancamento "uscendo" dalla chiesa (tutte espressioni correntemente utilizzate ma piene di equivoci e sostanzialmente improprie e disfunzionali, che un semiologo potrà meglio di noi mettere a punto) non provano molta simpatia per quanti pretendono di restare "all’interno" della chiesa rifiutandosi all’omologazione e continuano a dirsi "cattolici" agitando bandiere "avversarie". Eco non si nasconde: Se poi nasce un movimento di preti che ritengono che, su materie non dogmatiche come il celibato ecclesiastico, la decisione non spetti al Papa ma alla comunità dei fedeli raccolti intorno ai propri vescovi, e intorno a questo movimento nasce la solidarietà di moltissimi credenti praticanti, io mi rifiuterò di firmare un appello in loro favore. Non perché sia insensibile ai loro problemi, ma perché non appartengo alla loro comunità e non ho il diritto di mettere il naso in questioni che sono squisitamente ecclesiali (pp. 39/40). E inoltre: Se fossi una donna e volessi a ogni costo diventare sacerdotessa, passerei al culto di Iside, senza cercare di forzare la mano al Papa. Ma come intellettuale, come lettore (da lunga data) delle Scritture, coltivo delle perplessità che vorrei veder chiarite (p. 41). Eco mantiene separate le questioni squisitamente ecclesiali da quelle "profane" (altra parola da riesaminare) e questa è l’ottica del rispetto delle competenze, del "libera chiesa in libero stato", grazie alla quale si firmano i concordati e ciascuno tira per la propria strada. Evidentemente ci sono materie in cui una chiesa o un gruppo qualsiasi, religioso o no, si organizza come meglio crede, ma si sta facendo spazio (e ce lo ha detto chiaramente don Ciotti durante la presentazione del libro di Chiti Laici e cattolici lo scorso 14 gennaio a Torino) una chiesa ispirata all’idea del "camminare insieme" di Michele Pellegrino, in cui si elabora un pensiero e una prassi a partire da un diritto di cittadinanza riconosciuto a chiunque si riconosca in un gruppo umano in cui agisce come forza motrice "la fame e la sete di giustizia" e nel quale si trovano (prioritariamente o paritariamente) accolti i discepoli del Signore riconosciuti come tali.

Questo modello di chiesa – e questo tipo di fede – non compare nel carteggio tra Eco e Martini, anche se non mancano buone ragioni per credere che la lezione di Michele Pellegrino non sia affatto estranea alla storia e all’opera pastorale dell’arcivescovo di Milano.

Chi ha fatto la dura esperienza di una chiesa arrogante e ha individuato l’unica via per salvaguardare la propria dignità nel rinunciare ad una comunità di fedeli raccolti attorno ai propri vescovi, comprensibilmente trova difficile accettare che altri combatta l’arroganza restandoci. Anche perché non mancano motivi per essere tentati di credere che l’arroganza, travestita da Onnipotenza, possa magari essere un attributo del Dio delle Scritture e come tale faccia parte del DNA della chiesa. E’ questo, se mi permetti una conclusione del tutto personale, il Dio (e la chiesa) in cui non credo, quando mi dichiaro credente cattolico.

Gianfranco Monaca


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