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Brunetto Salvarani

C’era una volta un re

Salomone che scrisse il Qohelet

Collana Letteratura biblica n° 10, pp. 160, Edizioni Paoline, L. 23.000

"I testi biblici maggiormente rappresentativi sono testi narrativi", scriveva in un precedente volume (1) Brunetto Salvarani, che da tempo dedica una parte consistente del proprio lavoro di teologo a sondare il filone della teologia narrativa. Nel solco di questo lavoro. Salvarani ha ora prodotto un testo che si situa a metà tra l’opera letteraria e l’analisi teologica (cogliendo il meglio di entrambe le caratteristiche): C’era una volta un re… Salomone che scrisse il Qohelet. Riesce a sottolineare , rileggendo il libro di Qohelet, al bellezza di quei versetti, la sua importanza per il mondo ebraico e cristiano. Già nel 1991, in un articolo pubblicato su "Confronti" e raccolto in un libretto stampato a tiratura limitata, l’autore scriveva che gli interrogativi in esso contenuti vanno presi sul serio e hanno diritto di cittadinanza all’interno di un sistema religioso in quanto "sapienza del negativo". L’autore del Qohelet è stato considerato, di volta in volta, "un tragico pessimista, un inguaribile ottimista, uno scettico o una personalità piena di fede": Salomone/Shlomò, a cui vengono attribuiti quei capitoli, è un re che manifesta tutti i dubbi, le incertezze, la paura, le speranze vissute da ogni essere umano. Il testo è un inno, scrive Salvarani, "al non senso e ai contrasti irresolubili della vita umana ed in esso coesistono appassionata fedeltà alla terra e altrettanta decisa fedeltà alle realtà ultime.

Qohelet faceva parte, già dal 165 a.C., della Bibbia ebraica che oggi è oggetto di una riscoperta che è tardiva rispetto al ruolo che aveva nella formazione degli adepti delle prime comunità cristiane. Salomone, il re più sfarzoso della storia di Israele, il cui nome, Shlomò, portava impresso in sé "un auspicio ed un destino, significando pace, ma ancora di più completezza, integrità, totalità di senso". Questo re viene riletto, nel libro di Salvarani, come piena espressione di un popolo che non si accontenta della propria condizione e che viene proiettato altrove nel tempo e nello spazio. "Vanità delle vanità, tutto è vanità" (1, 2), il versetto più famoso di Qohelet, si basa sul termine hevel, che, per Salvarani, dovrebbe essere reso con "soffio, alito, respiro", per indicare il dato fondamentale della fragilità umana. È riduttivo considerare l’autore di quel versetto come un inguaribile nichilista, mentre è più giusto affermare che con quelle parole si intende sottolineare l’inarrestabile e naturale rapidità delle cose umane che scorrono davanti agli occhi umani. L’incipit del libro di Qohelet non è un invito alla fuga dal mondo, non è disprezzo per la realtà umana, è invece da interpretarsi come il manifesto del "già e non ancora" della salvezza che rende impossibile ogni sacralizzazione del mondo agli occhi del credente e in cui si abolisce ogni distanza fra tempo sacro e tempo profano. Nella prospettiva di Qohelet l’uomo deve essere fedele al mondo senza farne un idolo. Qohelet, conclude Salvarani, è il memoriale del fatto che la realtà è da sperimentare prima ancora che da teorizzare. Solo prendendo sul serio questo libro si potrà prendere sul serio anche Gesù e la sua istanza radicale. Il credente potrà comprendere che non possono esistere, per lui, mondi paralleli, né scantonamenti dalla realtà concreta e quotidiana. Qohelet si profila come invito e ammonizione che non si può avere alcuna speranza se la condizione per ottenerla significa evasione dal mondo.

Luciano Grandi

(1) Le storie di Dio, Bologna 1997, EMI, 190 pp.


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