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Brunetto Salvarani

Le storie di Dio

Bologna 1997, EMI, 190 pp.

Un’appassionata ricerca, che raccoglie interventi apparsi su diverse riviste nell’arco di un decennio, sull’evoluzione del rapporto tra ebraismo e scrittura – nella prima parte del volume – e una convinta descrizione del racconto biblico come "grande codice" della cultura occidentale e non soltanto come testo dogmatico (il mancato incontro tra queste due concezioni, rileva l’autore, ha avuto influssi negativi sullo sviluppo del dialogo tra ebraismo e cristianesimo). Sono questi i poli all’interno dei quali si muove l’importante lavoro di Salvarani.

Occorre però ricordare i molti altri temi, acutamente analizzati, che si intersecano e convergono nei due principali: la vicenda intellettuale di Primo Levi, la sublime arte di Chagall, il necessario incontro tra preghiera e poesia (l’ultimo libro di Luzi arriva a dire che tutta la poesia moderna, credente e non credente, è comunque evangelica), l’interrogarsi sul senso della sofferenza che ha prodotto un’enorme mole di pagine che interpellano la teologia e hanno fornito la voce "a quanti non furono in grado di parlare, pregare e neppure di gridare". Tutti questi temi concorrono a formulare l’auspicio che anche l’arte di oggi "possa offrirsi quale utile e indispensabile supporto per il dialogare con Dio".

Comunque lo si affronti, questo tema non può non sollecitare chi lo legge: il teologo trova incalzanti interrogativi, lo studioso vede tracciati affascinanti sentieri di ricerca, il lettore "comune" gode di un’ampia e stimolante bibliografia. Inoltre deve essere sottolineato il lessico usato, che non respinge il neofita grazie ai concetti espressi con chiarezza (l’unico neo è forse dato dalle ripetizioni, inevitabili in una raccolta come questa).

Il volume di Salvarani è importante perché riesce a fare piena luce sul significato che la tradizione ebraica ha assegnato alla propria voglia di raccontare, trovando nelle storie della Bibbia eccezionali spunti narrativi che si sono riversati nelle pagine dei suoi più significativi scrittori. Ai nomi di Agnon, Roth, Singer, Wiesel vengono aggiunti ed analizzati quelli, altrettanto noti, di Oz, Yohoshua e Grossman. Sono i nomi più famosi di una tradizione che ha assegnato tanta importanza al narrare da "far diventare la parola che narra ben più di una semplice parola: essa stessa è accadimento di salvezza".

La stessa creazione si concretizza in un raccontato. Inoltre, per il mondo ebraico disperso, il raccontare ha rappresentato un potente collante. Un drammatico punto di svolta si è verificato con Auschwitz che, da un lato, ha sollecitato un’urgenza del narrare ciò che era accaduto (Wiesel, Levi), ma dall’altro ha spezzato "l’innocenza narrativa" che aveva accompagnato gli autori ebrei fino a quel momento. Tale crisi si avverte in particolare nella narrativa israeliana, che l’autore distingue appunto da quella ebraica, che svolge una funzione decisiva nel comprendere la realtà d’Israele, ma denuncia anche una difficoltà nel legare le ragioni della fede alle necessità della storia e racconta una Gerusalemme che non è più la città del mito, ma quella del disincanto e della dispersione dei testi sacri: "nel nuovo Israele, si chiede Grossman c’è ancora spazio per la narrativa orale?".

Dopo aver rilevato questa crisi, la seconda parte del volume afferma la certezza che il raccontare non è morto, anche se occorre ripensarne le ragioni, e che proprio l’incontro tra teologia e narrazione - tra poesia e preghiera – può dare impulso allo stesso dialogo ecumenico e alimentare le speranze in un mondo in cui "sorga una risposta credibile al perenne bisogno di salvezza". Lo stato di salute di questo incontro, soprattutto per quanto riguarda l’Italia, denuncia una condizione precaria e il lavoro di Salvarani intende dargli vitalità, constatando che sono disponibili tre ipotesi: una teologia di narrazioni, una teologia esperta nell’analisi delle narrazioni, una teologia che fa i conti con la letteratura. Mentre le piste teoriche sono tracciate occorre che la teologia abbia la consapevolezza delle proprie inefficienze nel maneggiare le tematiche della narrazione e la conseguente spinta a colmare queste lacune per comprendere meglio la propria tradizione.

È impressionante l’ampiezza dell’elenco che Salvarani compila, diviso in sei aree, dei testi in cui si manifesta un’interpretazione letteraria di Gesù nel nostro secolo: questo dato, in un’epoca di crisi del narrare, deve sollecitare, si augura l’autore, "un lavoro di decostruzione del volto del Gesù letterario e dare le ali definitivamente al confronto tra teologia e letteratura".

Luciano Grandi


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