Dalla delega alla partecipazione attiva
Data: 15 Marzo 2010
Autore: Minny Cavallone
La crisi, che stiamo attraversando a tutti i livelli, economico, sociale, politico, esistenziale ed etico ci inquieta e interroga profondamente. Per questo ci siamo confrontati su queste tematiche nell’ultima riunione redazionale. Quello che segue riprende alcuni punti trattati e sviluppa il tema senza pretendere di trovare soluzioni, ma anche senza rinunciare ad essere attivi intellettualmente e possibilmente nella pratica quotidiana.
La crisi economica e sociale è quella che ha più evidenti ripercussioni sia nei paesi “ricchi”, sia in quelli emergenti sia in quelli sempre più impoveriti. Ne scaturiscono gravissimi problemi: disoccupazione, licenziamenti, precariato, peggioramento di tutti i servizi sociali, danni ambientali, guerre, conflitti, perdita di diritti acquisiti, “bolle”, crack, scandali finanziari che spesso “mettono in ginocchio interi Paesi e/o larghi strati della popolazione all’interno di essi. La lotta alla povertà sembra essersi arrestata e trasformata in lotta ai poveri, le promesse della green economy si limitano a modesti sostegni alle fonti energetiche rinnovabili, mentre si progetta di far ricorso a nuove centrali nucleari o alla costruzione di una serie di grandi dighe. Mi riferisco alle recenti dichiarazioni di Obama, oltre che alle decisioni del governo italiano nonché ai megaprogetti amazzonici del brasiliano Lula. Le conseguenze ambientali sono gravi: il surriscaldamento del pianeta, il dissesto idrogeologico con frane rovinose (penso ai recenti casi di alcuni paesini della Calabria e della Sicilia da cui la popolazione è dovuta fuggire), l’inquinamento e l’accumulo di rifiuti tossici. Tra le conseguenze sociali si registrano, tra l’altro, suicidi (40 in France Telecom), incidenti sul lavoro, tensioni e drammi familiari, sofferenze maggiori tra i più deboli, crescita dell’intolleranza, insicurezza nei servizi. Penso a tal proposito a drammi come quello di Viareggio e recentemente lo scontro ferroviario in Belgio o l’incidente del pullman francese che trasportava in Italia un gruppo di studenti in gita. Tra tutti questi fatti il legame non appare subito evidente, ma c’é. Gli esperti (e la popolazione) si chiedono: “Quando e come usciremo dalla crisi?”. Pochi esperti e movimenti mettono però in discussione il modello economico-sociale globalizzato e iperliberista che si è affermato nell’ultimo ventennio e che, nonostante i danni provocati, sembra l’unico possibile. Permane il mito-dogma che l’economia è una scienza triste, ma dura (nel senso che ha leggi simili a quelle fisiche come ad esempio la forza di gravità, e perciò immutabili) e che perciò si possono tentare piccoli aggiustamenti e corrette gestioni, ma non si possono “sognare” e progettare concretamente reali cambiamenti. Elenchiamo alcuni miti correnti: la positività delle privatizzazioni e della (assoluta) libertà dei mercati finanziari, la validità delle grandi opere e dei grandi eventi, l’utilità della concorrenza, della competitività della ricerca e dell’innovazione in tutti i settori. La privatizzazione tende ad estendersi in tutti i campi: acqua, aria, territorio (alcune multinazionali comprano terreni in Africa proprio in quell’Africa che -si dice- non possa sfamare i suoi abitanti per scarsità di cibo!), esseri viventi con gravi danni per la biodiversità, trasporti, servizi sociali, ecc. Si vogliono far diventare società per azioni privatizzate: la protezione civile, il carcere, l’esercito e tanti altri settori che dovrebbero essere statali e soprattutto pubblici cioè volti al bene pubblico. In Italia questi sono temi di grande attualità, ma non è solo il nostro Paese a percorrere questa strada pericolosissima.
A tutto ciò si aggiungono i problemi posti dai vari patti di stabilità, il dogma assoluto della parità di bilancio dei Comuni e degli enti locali, il ruolo delle banche, la possibilità da parte loro di inventare “prodotti finanziari” strani, incomprensibili e spesso tossici, la difficoltà di accedere al credito da parte delle aziende grandi e piccole nonché ovviamente dei singoli e delle famiglie, l’intangibilità delle rendite finanziarie (ricordiamo la Tobin Tax, di cui ora talvolta i governi riparlano assai timidamente) insomma in poche parole la difficoltà che la politica, quella sana (!), incontra quando voglia in qualche modo controllare ed indirizzare l’economia a favore del bene comune. Ne esce un quadro, a mio parere, senza via d’uscita, se non si cambiano almeno parzialmente le regole del gioco e se questa necessità non diventa una convinzione condivisa da larga parte della popolazione. Ciò che ho detto riguarda il funzionamento normale di questo sistema economico basato sul dogma della crescita illimitata, che mi fa pensare alla tragica, ma superlunga pista da bob delle Olimpiadi di Vancouver dove un atleta ha perso la vita perché l’importante era essere superveloci, sempre più veloci. Ci sono però anche gli aspetti illeciti, che ovviamente pesano ancor di più sulle spalle di tutti i cittadini a vantaggio di pochi: l’evasione fiscale, le tangenti, i clientelismi, gli sprechi, le corruzioni e le concussioni, i “comitati d’affari” di dubbia regolarità (in cui si osa persino ridere su drammi come il terremoto aquilano), le organizzazioni malavitose potenti e sanguinarie spesso colluse con alcuni politici... E quindi, anche se sarebbe più facile cedere allo sconforto, occorre invece informarsi, sostenere chi si batte per modificare in meglio la situazione il più radicalmente possibile, non fare di tutta l’erba un fascio, valutare positivamente il “pensiero divergente” e tutte le iniziative che si muovono in controtendenza. Qui si entra nella sfera dell’etica individuale e della moralità civica. Le cose sopraelencate forse a molti faranno pensare soprattutto alla situazione italiana e ciò è vero, ma non è sufficiente fermarsi qui perché queste tendenze sono mondiali anche se più o meno accentuate nei diversi Paesi. Comunque i problemi e le scelte (nonché gli stati d’animo, i dubbi, le incertezze, ecc.) riguardano almeno tre aspetti: coscienza, fede, rapporto dei cittadini con le istituzioni politiche. La coscienza dovrebbe guidare ciascuno di noi nella ricerca del giusto, dell’utile non egoistico, del bello, del vero e nel perseguimento del bene comune. Moralismo? Concetti superati? Non credo, dato che “salvarsi” da soli, oltre che ingiusto, è anche difficile se non impossibile; uscirne insieme, come diceva don Milani, è più probabile anche se la strada è difficile a causa delle resistenze che ci sono in ciascuno di noi e degli influssi esterni (strutture sociali e messaggi veicolati sotto tante forme nonché controllo dell’informazione da parte dei poteri forti). In questo cammino le differenze tra credenti e non sono poco rilevanti, ciò che conta è il senso di responsabilità e di umanità. Molto ci sarebbe da dire su questo tema del ruolo delle religioni, ma qui mi limito a riportare alcune affermazioni del giornalista Raffaele Luise nell’incontro di domenica 14 febbraio ad Albugnano. È giusto che un rapporto tra chiese e società ci sia, ma occorre che ci siano dei limiti e che ci si ponga la domanda: “Quale fede e quale politica?”. In Italia in particolare, a parte le eventuali contraddizioni, si può notare che le autorità della chiesa cattolica hanno assunto posizioni apprezzabili sul tema ambientale e sull’immigrazione, mentre è pericoloso l’atteggiamento integralista sulle tematiche etico-biologiche. Di tutto ciò tuttavia si parlerà ancora in modo più ampio in altri articoli di TdF.
Sulla distanza tra istituzioni e cittadini e crisi della partecipazione politica ci siamo anche interrogati. Perché molti cittadini non hanno fiducia nelle istituzioni e preferiscano una delega passiva anche psicologica alla partecipazione attiva? Questo avviene nella quotidianità, ma anche in occasione delle elezioni. Le ragioni sono tante e qui possiamo esaminarne solo alcune. La cosiddetta fine delle ideologie spesso si è trasformata nei partiti nella rinuncia ad elaborare progetti per la società, progetti che possano coinvolgere ed appassionare i cittadini. Nella migliore delle ipotesi si persegue una corretta gestione dell’esistente, nella peggiore si perseguono interessi personali e di gruppo. Inoltre la gente nota che le spese della politica sono troppo elevate e che gli emolumenti ed i benefit di cui godono i politici sono troppo vantaggiosi per loro, mentre ai cittadini si chiedono sacrifici. Per non parlare di scandali, conflitti di interesse e leggi ad personam. In particolare in Italia si è troppo rafforzato il potere dell’esecutivo e del leader a scapito degli altri poteri: parlamento, magistratura, enti locali, informazione libera da condizionamenti e comitati sorti nella società civile. Non tutti si rendono conto di questo, ma gli effetti si avvertono e portano al populismo oppure alla sfiducia e alla rinuncia a capire e a contare. Per fortuna non sempre è così, infatti ci sono associazioni e comitati attivi, ci sono strumenti previsti dalla Costituzione come i Referendum e le leggi di iniziativa popolare che possono essere, sia pure con difficoltà, attivati. C’è la comunicazione attraverso Internet e dintorni, che per ora è abbastanza libera e permette a chi ha dimestichezza con questi strumenti di collegarsi in rete e di discutere in forum. Quest’ultimo strumento ha portato alla formazione del cosiddetto “popolo viola” ed alle manifestazioni autoconvocate (e partecipate) per la libertà di stampa e per le dimissioni di Berlusconi e la difesa della Costituzione (5/12/2009). Anche alcuni giornali e alcune trasmissioni televisive, spesso sotto attacco governativo, forniscono un’informazione pluralista e corretta, che cioè non nasconde i fatti e le opinioni scomode. Però i tentativi di imbavagliarli non mancano: dossier scandalistici contro giornalisti e direttori, provvedimenti che regolamentano il servizio pubblico RAI in modo restrittivo come l’ultimo che tende a trasformare le trasmissioni di approfondimento in trasmissioni di comunicazione politica e propaganda riservate ai leader dei principali partiti ed ai candidati governatori. Poi c’è la propaganda “occulta” che pervade i più seguiti programmi di intrattenimento. Un impedimento grave alla partecipazione sono anche i meccanismi delle leggi elettorali: bipolarismo (quasi) forzato, impossibilità di esprimere preferenze, premi di maggioranza e soglie di sbarramento, possibilità per il capo del governo e per i governatori di regione di nominare nel consiglio dei ministri e nelle giunte anche persone che non sono state né candidate né elette, il voto disgiunto... tutti elementi che non permettono alle elettrici ed agli elettori scelte davvero libere e consapevoli, anche se, qualche volta, come è accaduto in Puglia recentemente, le decisioni in alto loco hanno dovuto fare i conti con le istanze provenienti dal basso. La preminenza della governabilità (!?) ha penalizzato troppo fortemente la rappresentatività e l’esigenza di coerenza da parte dei politici. E un tema questo su cui tutti dovrebbero riflettere ed eventualmente progettare modifiche in senso più democratico. Infine non si possono dimenticare i pericoli di criminalizzazione e di repressione di ogni dissenso. Ne abbiamo avuto gravi esempi in passato e rischiamo di averne altri più gravi in futuro Pensiamo ai comitati ed alle reti che si oppongono alle grandi opere (No Tav, No Ponte, No Dal Molin, No F35, ecc) o alla privatizzazione dell’acqua o alle centrali nucleari; a quanti aiutano gli immigrati anche irregolari (ad esempio con permesso scaduto non ancora rinnovato), agli operai che tentano di impedire la chiusura delle fabbriche in cui lavorano... Se la protesta si svolgerà platonicamente forse sarà tollerata, ma se si tenterà concretamente di impedire l’attuazione di quanto deciso non democraticamente in alto loco quanta repressione si abbatterà sui cittadini? Quanta violenza ci sarà da aspettarsi? Dunque la distanza dalle istituzioni, al di là di eventuali fattori personali (menefreghismo, problemi di salute e familiari, ecc.) è purtroppo molto motivata anche se ovviamente è auspicabile che si possa superare positivamente. Concludo con una citazione emersa nella nostra riunione: Gaber nei lontani anni ‘70 aveva già esposto riflessioni simili in una canzone “Salviamo ‘sto paese”.
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