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EUROPA/UCRAINA SULLA STRADA SBAGLIATA?



Data: 20 Gennaio 2025
Autore: Giovanni Pagliero



Secondo gli analisti di Limes, a uscire
nelle condizioni migliori dalla
guerra in Ucraina sarà un paese che
non l’ha combattuta: ovvero la Cina,
che incassa senza colpo ferire l’alleanza
e la dipendenza della Russia. A uscirne
nelle condizioni peggiori (se si escludono i due
belligeranti) sarà invece l’Europa. E quando
si dice Europa non si intende soltanto
Bruxelles ma anche ciascuno degli Stati europei,
a cominciare dai maggiori.

Se si escludono, infatti, i solitari tentativi di
Macron di avviare un dialogo all’indomani
dell’invasione russa, e il freno iniziale – da
parte di Scholtz – all’autorizzazione all’uso dei
missili a lunga gittata, risalta la sproporzione
tra l’impegno militare e quello diplomatico: per
l’uno, oltre sessanta miliardi di euro; per l’altro,
neanche una dichiarazione che minimamente
si discostasse dalla posizione USA.
Anzi, ci si è discostati al contrario: nei primi
mesi del 2024 sia Macron, sia Von der Leyen
hanno dichiarato a chiare lettere che non escludevano
l’invio di soldati europei sul terreno di
guerra; e già prima dell’elezione di Trump era
evidente che a una trattativa si sarebbe giunti
solo per iniziativa degli Stati Uniti, senza che
l’Europa potesse/volesse esercitarvi un peso o
un qualche margine di autonomia. Per non dire
del rafforzamento delle posizioni intransigenti
nella nuova Commissione dove, guarda caso,
la Difesa e l’Alta Rappresentanza per la politica
estera sono state affidate a un lituano e ad
un estone.

Economia di guerra
E dire che il prezzo pagato dall’Europa è già
alto. La caduta in recessione dell’economia
tedesca, che per decenni ha rappresentato la
locomotiva del continente, è un dato di fatto e
rischia di precipitare la Germania in una crisi
politica dagli esiti incerti (mentre, guardando
all’altro fronte, chi confida ancora nell’effetto
delle sanzioni?). In una prospettiva geopolitica
è chiaro a tutti che la prosperità dell’Europa
– una propaggine del ‘continente antico’ –
non può prescindere da rapporti collaborativi
con l’Eurasia. Eppure l’unico orizzonte pare
attualmente quello di un ulteriore e continuo
riarmo: e ormai si ipotizza che nell’Unione la
(sola) spesa militare cresca al di fuori di qualsiasi
vincolo di bilancio, o Patto di Stabilità.
Su questa strada, è davvero probabile che
l’Europa risulti essere la principale ‘vittima
collaterale’ di un malaugurato proseguimento
di questa guerra che, a detta di Giangiacomo
Migone, sembra anzi segnare, sul piano strategico,
“l’oggettiva convergenza di due imperi
in declino ai danni dell’UE”. Ed è altrettanto
probabile che, insieme ad essa, altre vittime
illustri siano lo Stato sociale e le sinistre: in
quanto il primo è destinato ad essere eroso
dall’economia di guerra, e le seconde si troveranno
sempre più spiazzate dalla cultura bellicista
e dal rigurgito delle identità e dei nazionalismi.
Il contesto di guerra favorisce/esige
una buona dose di conformismo e autoritarismo:
terreni assai più congeniali alle destre.

Regimi e democrazie
Si dirà, comunque, che sulle considerazioni
economiche deve prevalere la difesa della democrazia,
o meglio delle democrazie. Ma anche
qui – senza nulla togliere al carattere autocratico
del regime di Putin – risaltano vistose
incoerenze. Basti pensare che i due paesi
che con grandi profitti hanno rimpiazzato la Russia nelle
forniture di gas all’Italia sono stati l’Azerbaigian (che,
nel silenzio della comunità internazionale, ha appena
espulso dal Nagorno Karabakh, con un’operazione di
pulizia etnica, centomila armeni) e l’Algeria dove, alle
recenti elezioni, il partito di governo ha ‘trionfato’ col
95 % dei voti. Speriamo che oggi il medesimo schema
bipolare non motivi il plauso riservato al nuovo governo
jihadista della Siria: sappiamo com’è andata con i
mujadden di Bin Laden mandati a combattere per la ‘libertà’
dell’Afghanistan.

Velleità e oltranzismo
Anche chi continua a ritenere indispensabile il sostegno
allo sforzo bellico ucraino in difesa dei propri confini
(e di là da essi) non può non notare l’oltranzismo
che traspare dalla decisione di interrompere quasi tutte
le relazioni, commerciali e spesso scientifiche e culturali,
con la Russia (è indicativa la sospensione di tutti i
collegamenti aerei, specie se si ricorda che persino ai
tempi di Stalin – nei primi anni Cinquanta – c’erano voli
settimanali tra Roma e Mosca).

Allo stesso modo non si può non notare il carattere
velleitario di certe prese di posizione, prima fra tutte la
promessa dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea:
ripetuta in mille occasioni “con il retropensiero che
non avverrà perché farebbe saltare il nostro banco” (Limes,
7, 2024). D’altronde, da quanti anni attendono in
anticamera l’Albania e cinque paesi dell’ex Jugoslavia,
che al confronto dell’Ucraina sono dei nanetti? E come
possiamo immaginare che l’Europa divenga finalmente
un’entità politica, quando è evidente che già oggi la sua
preoccupante debolezza scaturisce dal non avere ancora
‘digerito’ l’allargamento ad est?

Una vocazione, una proposta
A proposito di velleità, anche l’appello a una difesa
comune (in sé ragionevole) rischia di suonare illusorio
se disgiunto dalla volontà di una politica estera comune:
in assenza di questa, e nel quadro dell’attuale fragilità
istituzionale, sarebbe come potenziare i muscoli senza
sviluppare il cervello.

Ma forse, dietro l’incapacità europea di muovere in
modo congiunto un’iniziativa che ambisse favorire una
soluzione del conflitto e non si limitasse ai “pacchetti” di
nuove armi o sanzioni, traspare la dimenticanza della vocazione
di pace che stava alla base dell’europeismo dei
suoi fondatori. Se non vuole restare un esercizio retorico,
quanto ha ricordato di recente il presidente Mattarella nel
discorso al Corpo Diplomatico – “l’Europa è prima di tutto
un progetto di pace” – dovrebbe costituire la stella polare
dell’Unione nelle relazioni internazionali. E concretizzarsi,
ove possibile, in scelte emblematiche, capaci di veicolare
nel mondo messaggi coerenti con questa ambizione.
Un esempio? Visto che si parla di una difesa comune
europea, perché non stabilire che sin dagli inizi essa
preveda l’attivazione di una Difesa Popolare Non violenta
e di Corpi di Pace, cui vada destinata una quota
(anche minima) dei bilanci della Difesa? Sarebbe un
modo per dare dignità politica e rilievo internazionale
a ciò che gli storici studiano e sanno da tempo, ovvero
al fatto che la difesa non si identifica con l’esercito
e che, persino in presenza di un’aggressione, esistono
strumenti e strategie che hanno probabilità di
successo maggiori e costi umani inferiori rispetto allo
scontro armato. Sarebbe un modo, soprattutto, per dire
che è possibile non rassegnarsi alla guerra e non procedere
oltre in una corsa al riarmo destinata a travolgerci.

Ma per la pace... qual è il momento?
Una nota, infine, sulla pubblicistica che in questi anni
ha contribuito ad avallare l’inerzia della diplomazia e
ad allontanare ogni ipotesi di apertura al negoziato. Curiosamente,
si sono alternate due opposte letture. Quando
le truppe di Putin prevalevano, si paventava la loro
minaccia al punto da ipotizzare un’aggressione all’Europa;
mentre nei periodi in cui arretravano – ad esempio
dopo l’ingresso degli ucraini nel territorio di Kursk,
o dopo la débacle russa in Siria – ai fautori di
un’apertura alla trattativa si obiettava l’inopportunità
di frenare una controffensiva ritenuta potenzialmente
vincente. In buona sostanza, per ricercare la pace ... non
era mai il momento: a fasi alterne, sia la potenza che
l’impotenza di Mosca sono state enfatizzate per ribadire
l’assenza di qualsiasi alternativa alla prosecuzione
della guerra ed evocare il baratro di un tracollo dell’Occidente,
o al contrario la possibilità di una vittoria,
magari accompagnata dalla caduta di Putin.
È ormai sin troppo evidente che l’una e l’altra rappresentazione
risente di una forzatura propagandistica:
la capacità bellica russa non può essere sminuita o sottovalutata
– specialmente per gli immensi arsenali atomici,
che costituiscono un pericolo reale – ma al tempo
stesso presenta limiti evidenti, correlati a quelli dell’economia
e della demografia del paese; mentre molti osservatori
notano che persino la sciagurata scelta di portare
sul campo di battaglia i soldati nordcoreani non è
un indizio di forza.

Tuttavia, nonostante la schizofrenia di quei commentatori
– utile ai mercanti di armi – una larga parte dell’opinione
pubblica europea condivide o intuisce quanto
persino il generale Milley (in capo all’esercito USA)
ebbe l’onestà di ripetere più volte nel 2022: non c’è e
non ci sarà soluzione se non diplomatica. E questa consapevolezza,
che è sentimento diffuso, rimane – per chi
ama un’Europa fedele alla sua vocazione originaria –
un buon segno.