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Dalla guerra corpo a corpo alla guerra tecnologica



Data: 21 Dicembre 2024
Autore: a cura della redazione



Negli ultimi 150 anni la storia si è
concentrata sui leader, sui capi
di Stato: abbiamo studiato l’Italia
di Mussolini, l’Italia di Craxi, gli
Stati Uniti di Bush, la Russia di
Putin... quando non consideriamo che sono i
popoli che fanno i leader, che producono chi li
rappresenta. Popoli che hanno sempre vissuto
con il predominio della forza, tradotto poi nello
scontro fra le civiltà e soprattutto come strumento
di dominio.
Dovremmo invece essere più consapevoli
che l’umanità si misura sulla cura dei propri
simili, su temi molto umani quali l’amore e la
compassione. Non certo sulla capacità di produrre
macchine efficienti per la guerra: l’uomo
fino ad ora ha costruito solo corazzate, ha
fatto bombe e ha preteso - dopo aver bombardato
e con una notevole “spocchia” - di chiedere
la pace e “portare la democrazia”.
Senza dimenticare che la questione della tecnica
è legata a qualcosa che per lo più non si
vede: sempre più spesso si sente dire che la
tecnica è uno strumento che bisogna usare
bene. Che però è sempre stata gestita come una
pratica di distanziamento: se pensiamo, ad
esempio, alla prima guerra mondiale, guerra
di trincea con le armi da fuoco, l’essere umano,
il soldato, era messo nella condizione di
incontrare lo sguardo del nemico, magari in
un assalto all’arma bianca. Ci si trovava di
fronte allo sguardo di un proprio simile che si
doveva uccidere, si stava per farlo e il suo
sguardo era implorante e disperato. Ma il soldato,
noncurante, lo uccideva lo stesso. Quello
sguardo non lo si dimenticava mai, fino all’ultimo
giorno della propria vita.
Ce lo ricorda Fabrizio De André ne “La guerra
di Piero”:
«Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore»
C’è poi Giuseppe Ungaretti: dalla trincea
scrisse versi memorabili, che riassumono lo
spaesamento esistenziale dell’uomo di fronte
agli orrori di quel conflitto bellico.
In trincea Ungaretti “trova le parole per attaccarsi
alla vita” ed esce dalla guerra italiano
e poeta. E a ricordarci l’insensatezza della guerra
le letture di poesie come San Martino del
Carso, Fratelli, Sono una creatura, Veglia, I
fiumi con la voce inconfondibile di Giuseppe
Ungaretti.
«L’uomo nella guerra manifestava i suoi
peggiori istinti anche se quella guerra,
anche se c’eravamo entrati, anche se
l’avevamo voluta, ci sembrava che fosse
l’ultima guerra, che fosse la guerra per
liberare l’uomo dalla guerra. La guerra
non libera mai l’uomo dalla guerra. La
guerra è e rimarrà l’atto più bestiale dell’uomo
» (G. Ungaretti).
Si è poi passati dalle guerre di trincea alla
guerra “tecnologica”: oggi si uccide con i droni,
a distanza, senza colpo ferire. Stando comodamente
seduti in un ufficio, con in mano
un joystick, come se tutto fosse un enorme videogioco.
Si uccide senza assumersi la responsabilità
dei propri gesti: così la tecnica rischia di di-
ventare un enorme salvacondotto alla responsabilità.
Che è poi il senso profondo dell’essere liberi:
perché se non si è liberi e non si è anche
responsabili, si è degli assassini. Ed è una sorta
di “effetto collaterale” del distanziamento
che la tecnica produce.
Il PIL basato sulla produzione e
vendita delle armi
Al distanziamento tecnologico si somma poi
il distanziamento geografico-commerciale, che
si concretizza nel non partecipare formalmente
al conflitto, ma nell’intervenire di fatto in
esso fornendo armamenti. Così, da un lato, si
è estranei agli eventi bellici, ma, dall’altro, si
beneficia delle positive ricadute economiche
da ciò derivanti. Le industrie produttrici di armi
vivono una primavera felice, i loro insediamenti
non rischiano di essere obiettivi militari espliciti,
i loro conti sono lontani dall’essere in rosso
e contribuiscono in positivo al prodotto interno
lordo del paese di appartenenza.
Cosa ben diversa è quella posta in essere da
chi cerca di far da cuscino tra i contendenti,
come ad esempio l’Unifil in Libano. Si può
certo discutere sul grado di adeguatezza di tale
azione, ma di certo è uno sforzo concreto, operato
in prima linea (forse poco efficace), non
esente da rischi e da possibili errori, ma l’interposizione
neutrale e concreta tra le parti in
conflitto è di certo la strada più credibile per
tentare di spianare la via alla pace.
Questi due aspetti dovrebbero dire molto, e
molto far pensare, a proposito dell’attuale posizione
internazionale del nostro paese...
La recente visita del nuovo capo della NATO
Rutte alla Meloni, con baci e abbracci, ha sancito
il supino assenso all’aumento delle spese
militari perpetrato dal nostro governo nei prossimi
cinque anni, mentre distoglie fondi a sanità,
casa e scuola. Questo avviene nell’apatia
del popolo italiano, distratto da un’informazione
fuorviante che si trastulla nella cronaca più
o meno nera, alimentando paura, cinismo, scetticismo,
indifferenza. Così i problemi vitali
restano nell’ombra e quando compariranno in
chiaro forse sarà troppo tardi. Pur sapendo di
andare contro ragione, ci sentiamo di restare
ostinatamente positivi e crediamo che la storia
possa ancora essere fatta dai cittadini consapevoli
del loro potere, come la storia stessa
sovente dimostra. Quanti insegnanti, educatori,
attivisti, proseguono la loro opera a dispetto
di tutto e di tutti?
Villaggio difesa o
Villaggio di Babbo Natale?
Fa veramente strano vedere da una parte insegnanti
che a scuola educano alla pace, fanno
corsi su corsi orientati proprio ad una ricerca
entusiasta di trasmettere ai propri allievi un
messaggio di pace e speranza che le guerre nel
mondo cessino e che si adotti la diplomazia.
Seguendo soprattutto l’articolo 11 della nostra
bistrattata Costituzione che dice chiaramente
che “L’Italia ripudia la guerra come strumento
di offesa alla libertà degli altri popoli e come
mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”
e ci deve essere “un ordinamento
che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni;
promuove e favorisce le organizzazioni internazionali
rivolte a tale scopo”.
Tutto questo viene ampiamente smentito dal
comportamento del nostro attuale Governo che
inaugura e promuove a Roma il Villaggio Difesa
promosso dal ministero della Difesa. Lì
troviamo molti ragazzini, accompagnati dai
genitori, per andare a imparare a sparare, sotto
la guida di un vero soldato, con un mitragliatore,
oppure poter usare un drone con qualche
bombetta attaccata sotto. Tutto come un grande
gioco di propaganda e marketing delle Forze
Armate italiane. A nessuno dei genitori, che
portano il loro figlioletto lì a sparare come se
si fosse al Luna Park, viene in mente il “Promemoria”
di Gianni Rodari che, ad un certo
punto, scrive:
“(...) Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno, né di notte,
né per mare, né per terra:
per esempio, la guerra”.
Molti adulti però hanno dimenticato questo
educatore, considerato ormai superato dai più,
che vedranno, ahinoi per colpa di qualche
scellerato personaggio che ci governa, partorire
una generazione fanatica della forza estrema e
della violenza. E quel Villaggio Difesa, con
una fila smisurata di mamme, papà e bimbi che
vogliono entrare in un carro armato, in un aereo
cacciabombardiere, in un mezzo d’assalto per
imparare a fare la guerra, ha subito sostituito
il Villaggio di Babbo Natale, considerato ormai
roba superata!