Il Vangelo di Gesù interpella le varie organizzazioni ecclesiali
Data: 25 Agosto 2020
Autore: Giovanni Sarubbi
La vicenda di Bose, per come si è sviluppata e per come si è conclusa, pone alle comunità cristiane questioni che si trascinano oramai da diversi secoli. Si tratta di questioni centrali, non più rinviabili, quali la spiritualità, la preghiera, l’ecumenismo, o cosa è il Dio di cui parlava Gesù e cosa sono le Chiese cristiane e cosa è diventato il cristianesimo oggi nel XXI secolo. Il movimento ecumenico contemporaneo è nato 110 anni fa. Da allora non siamo andati oltre l’istituzione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (SPUC) e la produzione di alcuni documenti teologici fra alcune chiese o fra molte di esse unite in organismi ecumenici. La settimana di preghiera è l’unica iniziativa comune che è peraltro ai margini delle comunità cristiane. Sono pochissime le comunità delle varie chiese che la realizzano a livello locale, così come sono pochi i vescovi, preti, pastori o pope che ne capiscono effettivamente il senso. Negli ultimi decenni poi la responsabilità dell’ecumenismo nelle varie chiese, non solo in ambito cattolico, viene spesso affidata a chi o è ostile all’ecumenismo o non ha alcuna formazione specifica sul tema e quindi fa poco o nulla per sviluppare i rapporti ecumenici. Siamo ad oggi ad un ecumenismo di facciata con il grande limite della SPUC di essere solo un momento di preghiera, dove sostanzialmente si ripetono parole, testi biblici, formule di impetrazione, canti e nulla più, slegate per altro dalla realtà concreta che vivono le varie comunità e dove non si può celebrare insieme il memoriale dell’ultima cena, per i veti incrociati delle varie chiese e là dove ciò si è realizzato, la cosiddetta intercomunione, ha suscitato grande scandalo in tutte le chiese. Un caso di intercomunione è stato vissuto ad Avellino nel 1998 con grande scandalo nella chiesa cattolica e in quella Valdese. Il movimento ecumenico non ha fatto crescere nelle varie Chiese la consapevolezza del tradimento che le varie organizzazioni ecclesiali hanno commesso rispetto al Vangelo di Gesù e della necessità che ognuna di esse faccia una confessione del proprio peccato. Senza questa confessione di peccato non ci sarà alcun progresso sulla via dell’ecumenismo e non saranno i momenti di preghiera che risolveranno le contese fra le varie chiese mascherate da questioni teologiche ma tutte estremamente materiali ed economiche. Il considerare la preghiera come un ripetere formule e la Chiesa come un luogo per eseguire dei riti è un gravissimo limite del cristiane- simo non più sostenibile. È invece sempre più diffusa l’idea che “noi siamo quello che facciamo”. C’è la “preghiera del fare”, attestata dai testi evangelici, che diventa oggi sempre più dirimente per tantissimi seguaci di Gesù che non si sentono inquadrati in alcuna Chiesa e rifiutano riti e formule che si rifanno al “Dio metafisico”, muto sordo e lontano come gli antichi dèi dei cosiddetti pagani. E diventa centrale capire di cosa parliamo quando diciamo la parola “Dio” e cosa c’entri il “Dio della metafisica” con il Dio di Gesù che parla di “Dio padre”, cioè di un “Dio incarnato”, che vive nell’umanità, di un “Dio umanità” da amare come sé stessi. Di un Dio che non ha bisogno di preghiere o di sacrifici né umani né di animali, ma di impegni concreti da parte di ogni essere umano nei confronti degli altri esseri viventi e della Madre Terra che tutti ci ospita. Di un Dio che non ha bisogno di sacerdoti per celebrare sacrifici perenni, o di gruppi di persone che si separano dal resto della comunità e si dedicano a pregare e trasformano l’invito di Gesù a servire (“chi vuol esser primo serva”) in “potere del servizio”. E che questo sia l’insegnamento fondamentale del Gesù storico è chiarissimo dall’unica “preghiera” che lui ci ha lasciato, quel “padre nostro” che delle preghiere classiche, quelle verso il “dio unico” o verso gli dèi dei pagani, non ha nulla essendo essa una serie di affermazioni che impegnano chi la recita a cambiare la propria vita e a non attendere che il dio posto nell’alto dei cieli agisca in suo aiuto. Ed è proprio il “padre nostro” ad invitare gli uomini e le donne a superare e a rifiutare il concetto di preghiera come richiesta d’aiuto ad un essere superiore. “Nelle beatitudini Gesù espone il suo programma, nel Pater la comunità si impegna a praticarlo”, scrive Alberto Maggi nel suo “Padre dei poveri” vol. 2. Non c’è nel Pater la richiesta di una grazia, di un favore, di una guarigione, ma un impegno a praticare le beatitudini e cioè la condivisione dei beni, espresso nel concetto del “beati quelli che decidono di vivere poveri”; l’impegno per la liberazione degli oppressi, dei diseredati, degli affamati e assetati di giustizia; l’impegno alla mitezza, a praticare la misericordia e il soccorso a chi è in difficoltà, l’impegno a costruire la pace. E fare tutto ciò senza aver paura delle persecuzioni. Beatitudini come confessione di fede dei seguaci di Gesù di Nazareth profondamente diversa da quelle poi approvate dai Concili, a partire da quello di Nicea del 325 d.C., che fondarono la religione cristiana. Le beatitudini tutte impregnate del “dio umanità” di cui parlava Gesù, le confessioni di fede impregnate del dio della metafisica muto sordo e lontano e funzionale all’impero romano di cui ha mutuato il culto dell’imperatore. L’altra questione fondamentale è quella della cosiddetta “spiritualità”. Separarsi dal mondo e riunirsi in piccoli gruppi per praticare la spiritualità delle parole o costruire luoghi, anche fisici, che diventino luoghi di ristoro per le anime inquiete ed in ricerca di un senso per la propria vita, è una tentazione che ha attraversato tutte le religioni della storia dell’umanità. Si cerca la sapienza e la saggezza ma si finisce per mettere su organizzazioni che scontano, alla fine, il limite di tutte le organizzazioni umane nella gestione del potere e di tutte le meschinità ad esso connesse: la gestione dei poteri è derivata da una delega o da un servizio trasformato in “potere del servizio”. L’originario movimento di Gesù era un movimento laico. Gli attacchi continui di Gesù ai sacerdoti, agli scribi e ai farisei, ai gruppi cioè separati dal resto della comunità, e poi la rottura del velo del tempio durante la crocifissione e morte, ma più di ogni altra cosa la cacciata di tutti dal tempio, mercanti e fedeli, dicono con chiarezza che Gesù non ha mai fondato alcuna religione, e che anzi l’ha combattuta, e che non ha mai considerato la sua morte come un sacrificio per placare la collera di un dio feroce e cattivo. Anche l’uso del termine ecclesia (da cui deriva chiesa) indica con chiarezza che il movimento di Gesù era laico, perché le ecclesie erano le libere assemblee popolari delle città greche dove tutti gli abitanti decidevano insieme del proprio destino. Oggi viviamo invece strutture ecclesiastiche fortemente clericalizzate, intrisi di teologie che pretendono di definire cosa è la volontà di Dio e attraverso questo loro Dio controllare la vita di ogni persona, schiavizzandola anziché liberarla. Di tutto ciò occorre liberarsi senza indugio. Occorre rilanciare il programma gesuano delle beatitudini ancora tutto profondamente attuale, liberandolo dal linguaggio religioso tipico del tempo nel quale esso è stato scritto. Da quel programma potrà ripartire un rinnovato movimento dei seguaci di Gesù di Nazareth.
|