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"FIGLIO DI UN DIO POTENTE" (Rm 1, 4)

Premessa

La "buona novella" (eu-anghelion) che Paolo si accinge a comunicare ai romani ha un’origine sovrumana (Dio) e una testimonianza plurisecolare (le Scritture, i libri sacri degli ebrei). Essa riguarda un personaggio straordinario, un profeta che è insieme "figlio" di Dio.

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunciare il vangelo di Dio,

che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture,

riguardo al figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,

costituito figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore (Rm 1, 1-4).

La "filiazione divina di Gesù è ribadita due volte e altrettanto la sua "signoria" (vv. 2, 7). I due titoli (Hyios e Kyrios) non sembrano ammettere dubbi per il lettore moderno confortato da una lunga, ininterrotta tradizione teologica e da un’insistente predicazione ecclesiale. Supporre un’interpretazione diversa potrebbe ritenersi in partenza un assurdo.

1. Il termine "figlio" (di Dio) (v. 2), che sembra doversi leggere in senso proprio (generato dalla potenza divina) va riportato nel suo contesto di origine per coglierne la giusta portata. Già anche nella lingua corrente "figlio" ha spesso un senso (metaforico) più ampio di quello verbale (figlio naturale). D’altra parte quando si attribuisce una "filiazione" alla divinità è quasi ovvio che si faccia ricorso a un linguaggio simbolico. Certo l’onnipotenza divina è sempre illimitata, ma si tratta di un’attività tanto specifica delle creature (la generazione) che se è riferita a Dio può esserlo, normalmente, solo in senso improprio.

2. L’espressione "figlio di Dio" (v. 4) compare già nella Bibbia e nelle culture mediterranee del tempo. Gli uomini carismatici, gli eroi, i "santi", i sapienti, le persone insignite di potestà, i re, i sovrani, ricevono a volte un tale appellativo. Il "figlio" è sempre oggetto di particolare predilezione, di amore; si può adoperare il termine solo per indicare il particolare legame che passa tra una persona e l’altra. I "sapienti" chiamano "figli" i loro discepoli. Nel mondo egiziano i faraoni si fanno chiamare "figli" di qualche divinità per avallare il loro prestigio e ottenere più sicura obbedienza dai loro sudditi.

I Theoi anthropoi (uomini divini) si incontrano anche in Grecia e sono i personaggi eccezionali che hanno benemeritato della patria.

Il vecchio Testamento riserva la designazione di "figli di Dio" agli angeli (Gn 6, 2-4; Sl 29, 1; 82, 6; 89, 6; Gb 1, 6-12; Dt 32, 8; Dn 3, 25), ai re (2 Sam 7, 11-14; Sl 2, 7), al popolo d’Israele (Es 3, 7, 12; 4, 22; Os 11, 1; Gr 31, 9; Sir 36, 11); ai giusti (Sir 2, 18; 4, 10).

3. Il testo di 2 Sam 7, 12-14, perno del messianismo davidico, attribuisce al futuro discendente regale una paternità divina. "Io gli sarò padre ed egli sarà per me un figlio", afferma Jhw per bocca del profeta. "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato", ribadisce il salmista (2, 7). La "paternità" sottolinea la predilezione e la protezione che Dio gli accorderà nell’adempimento del suo mandato.

L’antico Testamento non ha mai pensato a un’eventuale trascendenza dell’atteso liberatore nazionale e se il testo di Is 9, 5 lo chiama "dio potente" si tratta sempre del figlio dell’almah più che di un’emanazione di Jhw (7, 14). È il suo potere che ha del divino, non la sua natura o la sua origine. La stessa cosa riafferma Isaia quando lo designa "Emmanuele", "Dio con noi" (7, 14). Anche nel nuovo Testamento "figlio di Dio" è spesso sinonimo di "messia" (Mt 16, 16; 26, 63).

4. Paolo sembra avere qualcosa di più preciso da dire sulla filiazione di Gesù nel testo successivo (v. 4) dove presenta il "figlio di David secondo la carne" e il "figlio di Dio secondo lo spirito". A prima vista si ha l’impressione che si tratti di due genealogie o nascite, quella davidica naturale, e quella divina, soprannaturale. Quindi Gesù sarebbe nello stesso tempo "uomo" e "Dio". Come è nato, nel primo caso, da David così è nato realmente da Dio (Gv 1, 13). Ma il testo non sembra dire tutto questo.

Già l’affermazione "figlio di David" è solo un’attribuzione messianica senza presupporre un’appartenenza anagrafica alla famiglia del grande re israelitico. Nella tradizione "il figlio di David" è colui nel quale si realizzeranno le promesse di salvezza fatte a Israele. Le promesse giungono tramite la dinastia che funge da modulo o modello occasionale (la regalità), ma non si realizzeranno necessariamente tramite essa. La salvezza non è legata né alla carne né al sangue, ma solo alla bontà di Dio che utilizza tutte le vie per attuare i suoi piani e in genere quelle meno appariscenti, come ribadisce spesso Paolo (1 Cor 1, 19) e come di fatto è avvenuto.

5. La "filiazone davidica" è il titolo che riassume la missione di Gesù nel piano di Dio, ma di fatto più che un "re" o un "signore" egli è stato un servo sofferente. Nella sua esperienza Gesù ha coniugato la gloria e l’ignominia, uno "scandalo" di cui né i giudei né i greci sono riusciti a rendersi conto e che gli stessi cristiani stentavano ad accettare (1 Cor 1, 23). È il mistero che Paolo riassume nell’espressione "figlio di David secondo la carne". Nella Bibbia il termine basar, sarx (carne) indica la fragilità, la debolezza della natura umana. "I giorni della sua carne" chiama l’autore della Lettera agli ebrei, l’esistenza terrestre di Gesù (5, 7; 2, 14). Il "Verbo si è fatto carne", dirà Giovanni; non semplicemente uomo, ma un uomo segnato dal limite e dalla finitezza (1, 14). Il "figlio di David", stando alle "promesse" (vedi i testi del messianismo regale) doveva essere rivestito di potestà e gloria; di fatto aveva avuto un’esistenza effimera; non aveva folgorato nessuno, era stato umiliato, vinto, giustiziato nonostante che avesse Dio dalla sua parte.

La vita terrestre di Gesù, da Betlemme al Golgota, era stata segnata dalla debolezza della carne. La morte è la fine di questa esistenza impossibile e "insopportabile". La risurrezione non è la rianimazione di un cadavere ma la trasformazione dell’esistenza terrestre e carnale in una condizione nuova che fa riferimento non più alla carne ma allo "spirito". Anche questo è un termine convenzionale, come lo è la carne; indica la potenzialità operativa, la forza, la capacità di agire di Gesù conformemente alla condizione esistenziale conseguita.

6. Il discorso è sempre incentrato su "Gesù Cristo" (vv. 1, 6, 7) del quale l’autore rievoca non le due "nature" ma i due momenti, le due modalità esistenziali, quella terrestre e quella celeste, quella nel tempo e l’attuale nell’eternità. Il divario tra i due stati è segnato dalla "carne" e dallo "spirito".

Il Cristo risorto, glorioso è invisibile ma la vita futura è ipotizzabile come il superamento e il compimento dell’esistenza presente finita nella tomba. Per l’apostolo la risurrezione è un avvenimento che cambia lo stato creaturale di Gesù. Da essere carnale egli è "costituito figlio di Dio potente". "Costituito" (horisthentos) non vuol dire che mette in luce una particolare virtù che già possedeva, ma che ne entra in possesso solo ora. Anche in Mt 28, 18 Gesù afferma "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra". "Mi è stato dato", segno che ancora non l’aveva.

7. Il testo di RM 1, 4 potrebbe essere interpretato ancora ambiguamente come se la risurrezione avesse operato una trasformazione nella natura di Gesù, da "figlio di David" fosse diventato "figlio di Dio". Una trasformazione di per sé sempre impossibile, assurda, ma che, soprattutto, il testo non consente di supporre. Non si dice che è stato semplicemente "figlio di Dio" ma "figlio di Dio potente" (en dynamei), cioè "dotato di potenza". L’accento non cade sulla filiazione in sé, ma sulle modalità esistenziali acquisite. Gesù è "figlio di Dio" ("messia", "inviato", "oggetto di predilezione") anche prima della risurrezione, ma è nella carne, quindi nell’impossibilità di far valere i "diritti" che gli vengono dalla "filiazione". La sua umanità è sempre la stessa, quella che ha ricevuto dalla madre nella nascita betlemica, ma risorgendo ha assunto una dimensione nuova, potente, gloriosa, vivificata dallo spirito. Ora è quel "figlio di David" cioè l’ "inviato divino" glorioso, imbattibile che i profeti avevano previsto.

La salvezza viene dal Cristo storico ma si attua tramite il Cristo risorto, per questo Paolo afferma che senza la risurrezione la fede sarebbe vana (1 Cor 15, 17). La risurrezione segna una metamorfosi che tocca realmente l’umanità di Gesù. Essa diventa potente, si può dire "divina", santa e capace di santificare. Non è soltanto un’esistenza "secondo lo Spirito", ma secondo "lo spirito di santificazione". Se la "carne" indica vicinanza con il peccato e lontananza da Dio (1 Cor 15, 50; 2 Cor 5, 6), lo Spirito, ripeterà Paolo nella stessa lettera (cap. 8), sottolinea la vitalità della rigenerazione battesimale. In Gesù risorto, come nel cristiano che è arrivato al traguardo finale, la lotta è finita; ora egli è dominato dallo Spirito che è sinonimo di santità perché viene da Dio e ovunque si posa produce effetti salutari.

8. Il Cristo che Paolo presenta ai romani rievoca le due fasi della sua esistenza, quella umile fino alla croce di cui egli parlerà presto con tutto il necessario coraggio ("Non mi vergogno del vangelo") e quella attuale di figlio, plenipotenziario divino, salvatore degli uomini. Paolo non ha conosciuto il Cristo di Betlemme, meno ancora il Cristo della risurrezione, ma sia nell’uno che nell’altro caso non fa che ripetere il kerygma della chiesa primitiva (1 Cor 11, 23; 15, 1). Nonostante che Gesù non fosse più un personaggio della storia aveva egualmente il potere di farsi sentire, di parlare al cuore degli uomini, come era accaduto all’apostolo sulla via di Damasco. È pertanto "vivo" e sempre pronto a manifestarsi a quanti sono in cerca di lui.

Ortensio da Spinetoli


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